di Roberta Sala
Non amo i punti interrogativi, specie quando compaiono in titoli di paragrafi, capitoli o addirittura di interi contributi. Non amo i punti interrogativi, ma allora mi si potrebbe subito obiettare perché questa riflessione si intitoli così e abbia per titolo con una domanda retorica che contiene forse già la risposta. In realtà mi chiedo davvero se il Covid-19 stia mettendo in serio pericolo la democrazia, come da più parti si dice. Non ho risposte certe, benché abbia letto svariati articoli e contributi, financo pronunciamenti oracolari, per trovare spunti per una breve riflessione che non si limiti ad elencare quesiti e domande già posti e risposti. Ho trovato molti argomenti dai quali partire per aggiungere le mie due parole sulla crisi della democrazia ai tempi del coronavirus, se non già, come vorrebbe questa ottimistica rubrica, del post-coronavirus, un’era che tutti auspichiamo inizi il più presto possibile.
Una prima considerazione ha a che fare con le restrizioni delle libertà personali. Le opinioni si sono divise tra quelle di coloro che le hanno considerate intollerabili e quelle di coloro che le hanno considerate necessarie. I primi hanno contestato la legittimità di tali restrizioni, trattandosi di provvedimenti autoritari privi di giustificazione. Comprimere libertà fondamentali come quella di movimento o di associazione, nel senso più elementare di aggregazione con altri, scelti come partner di qualsivoglia attività, rappresenterebbe una lesione ai diritti, non inscrivibile in alcun regime democratico. I secondi hanno considerato un’attenuante alle restrizioni – non gradite né desiderabili – le circostanze dell’emergenza sanitaria, nelle quali la difesa delle libertà fondamentali poteva essere sospesa a tutela di un diritto giudicato prevalente quale quello alla vita, specie per coloro che, più fragili di altri, avrebbero potuto perderla qualora fossero caduti vittime del contagio. Sono qui in gioco i diritti, anzi conflitti tra diritti; un conflitto tra diritti diversi, tra diritti di soggetti diversi, diritti degli uni contro quelli degli altri. In gioco è la ricerca di un loro bilanciamento, essendo diritti che si escludono a vicenda: il diritto alle libertà di movimento o di aggregazione degli uni contro il diritto degli altri alla tutela della propria salute. Nelle circostanze dell’urgenza si è optato per la difesa della salute a temporaneo discapito delle libertà. Peraltro, la temporaneità del provvedimento restrittivo va sottolineata come rilevante per giudicarne la tollerabilità o meno e il grado di accettabilità. Si tratta di tollerare un danno – quale è la compromissione di alcune libertà considerate prioritarie – in quanto considerato un male minore rispetto ad un danno maggiore se non irrimediabile, quale è la diminuzione grave o anche letale della propria salute a conseguenza del contagio. Personalmente concordo con questa interpretazione in direzione di una tolleranza del male minore (quale è la riduzione di alcune libertà a tutela della vita, date le circostanze di urgenza): la riduzione temporanea di un diritto di libertà è tollerabile se si impone come necessaria per la protezione di concomitanti diritti, la violazione dei quali può avere esiti irrimediabili. In breve, e un po’ grossolanamente: nel confronto libertà versus vita la prima cede il posto alla seconda che si conferma bene prevalente. La tutela della salute è prevalente sulle libertà nelle seguenti condizioni: condizioni pregresse di vulnerabilità; assenza di terapie efficaci, per cui il pericolo per la vita è reale; circostanze di emergenza, che, data la pandemia, rendono più acuto il dramma della scarsità delle risorse a fronte del bisogno di cure per un numero ingravescente di malati.
Questa posizione è peraltro ampiamente controversa, non tanto sulla base di una difesa di principio della libertà come bene prioritario rispetto ad altri, inclusa la vita, quanto perché si ritiene mal posta questa stessa alternativa tra libertà degli uni e vita degli altri, alla quale non si arriverebbe se soltanto si curassero altri mali, altri disservizi e iniquità sociali. In generale, la si accusa di essere un’alternativa che sposta l’onere della scelta sul soggetto su cui ricadranno le conseguenze stesse della scelta. Invece, l’onere della scelta dovrebbe ricadere su chi o su coloro che hanno permesso di arrivare a quell’alternativa; si pensi di nuovo alla scarsità delle risorse in sanità, frutto di ruberie o politiche dissennate; si pensi alle strategie di contenimento del virus a discapito di gruppi della popolazione (si pensi ai bambini) per i quali non è stato fatto fino in fondo valere il principio di eguaglianza, costringendoli a esistenze che non potevano neppure immaginare.
Un’ulteriore considerazione si intreccia con quella precedente circa il conflitto tra i diritti. Si tratta di capire chi sceglie che cosa e a vantaggio di chi. Tornando alla questione circa la liceità o meno di provvedimenti restrittivi, è diffusa la preoccupazione che la democrazia stia prendendo una brutta china, che si stia inevitabilmente trasformando nel suo contrario, e che siamo stati fatti precipitare in uno ‘stato di eccezione’. Per stato di eccezione si intenda qualunque stato in cui l’autorità politica agisce al di fuori del recinto della costituzione, sospendendo le leggi che regolano le relazioni tra i cittadini; tali regole hanno lo scopo di realizzare l’omogeneità delle condotte individuali, in modo che rispondano ad uno schema di aspettative mutue e stabili nel tempo. Chi ha visto nelle direttive recenti la prova che ci troviamo in uno ‘stato di eccezione’ accusa il governo democratico di abuso di potere, per l’atto di imporre con decreto restrizioni alle libertà individuali. Tale regime sarebbe a rischio di dispotismo, laddove si invoca lo ‘stato di emergenza’ per trasformarlo in uno stato di eccezione, per mettere in soffitta la carta costituzionale e instaurare un potere autocratico[1]. Venendo alla situazione del nostro paese, questa accusa di stato di eccezione non mi sembra condivisibile. Per quanto controversi, i decreti restrittivi non hanno messo a repentaglio il regime costituzionale in quanto sono stati previsti entro il quadro della costituzione, laddove in gioco c’era la protezione di diritti altrettanto se non più fondamentali di quelli di libertà, come si è detto parlando del diritto alla protezione della propria salute. Lo stato in cui sono stati emanati decreti è uno stato democratico in situazione di emergenza, non uno stato di eccezione, che peraltro la costituzione repubblicana non prevede. Si è trattato di decisioni – certamente controverse e controvertibili – dettate dall’emergenza, non scelte permanenti. Come scrive Gianfranco Pellegrino, nonostante l’epidemia, siamo rimasti nell’alveo di un regime liberale “dove l’eccezione ricade comunque all’interno della sfera della legittimità”. Scrive ancora: “l’aspetto più rilevante della pandemia e delle misure che, più o meno dappertutto (anche se con tempi e modalità diverse), sono state intraprese ha a che fare con la dinamica del contagio e con la coordinazione che è necessaria per rallentarlo. Le misure di lockdown hanno un unico obiettivo: ridurre il tasso di contagio lavorando sulle fonti e i mezzi del contagio. Ciò significa ridurre il contatto fra le persone – indipendentemente dal fatto che esse siano realmente contagiose o no, in assenza di informazioni attendibili su questo”[2]. Sottoscrivendo le affermazioni di Pellegrino, credo che non abbia dunque senso evocare lo spettro dello stato di eccezione in cui sono annullate le regole del diritto e calpestati i principi di giustizia. Ha invece senso riconoscere il conflitto tra i principi, così da valutare quali, quando e per quanto tempo si possano sospendere e per quali prevalenti ragioni, data l’incertezza del ‘funzionamento’ del virus e della sua diffusione.
Di nuovo, l’elemento della provvisorietà è rilevante per la giustificazione della sospensione di alcuni diritti a favore di altri, allo scopo di ristabilire un’eguaglianza nel godimento di quelli fondamentali o, quanto meno, allo scopo di garantire a tutti le condizioni di possibilità per l’esercizio del fondamentale diritto alla vita, o, meglio, del diritto alla sua massima tutela possibile. La provvisorietà, peraltro, rimanda a un altro elemento ancora, quello dell’incertezza che fa da sfondo alle decisioni tragiche, in cui la priorità attribuita ad un bene rispetto ad un altro non è detta a priori ma si impone come scelta. Nel periodo iniziale della pandemia non c’era certezza di che sarebbe successo il giorno dopo. Siamo vissuti brancolando nella più angosciosa oscurità, favorita dal disaccordo tra gli esperti, anzi, a pensarci meglio, dal loro disaccordo ostentato di fronte ad un pubblico sempre più disorientato e impaurito e perciò bisognoso di certezze. Siamo forse diventati consapevoli che si dovrà affrontare al più presto una seria operazione democratica per il coinvolgimento del pubblico nelle decisioni collettive. In altre parole: a fronte dell’incertezza è prima di tutto sull’informazione e sulla formazione dei cittadini che si deve agire, per renderli cittadini sufficientemente esperti onde essere coautori di disposizioni normative, o almeno esperti abbastanza per comprendere il senso delle regole e magari anche condividerle. Ciò si ricollega a quanto ha sostenuto Mariachiara Tallacchini quando, parlando della situazione pandemica, l’ha vista come occasione per un ripensamento dei diritti: si tratta di “ripensare il significato dell’autonomia individuale come capacità di agire in modo relazionale, abbandonando l’idea che gli individui abbiano solo collegamenti accidentali con chi li circonda, e che la salute implica responsabilità condivise”[3]. In conclusione, per contrastare l’incertezza non si dovrebbe lasciare la politica nelle mani degli esperti quasi a credere che le loro conoscenze possano diventare direttive politiche. Si tratta di attrezzarsi per vivere nell’incertezza, riconoscendo quella della scienza come quella dei fatti che ci circondano. Ciò che gli scienziati – virologi, statistici, epidemiologi e così via – offrono è una conoscenza dei mezzi, laddove i fini dovrebbero rimanere competenza dei politici. Di fronte all’urgenza di decisioni anche tragiche, le scelte spettano al decisore, non all’esperto, che semmai valuta la plausibilità della loro realizzazione nonché le conseguenze che si possono ragionevolmente attendere da esse.
Volendo ora tirare le fila del discorso, riassumerei dicendo che la ‘sofferenza democratica’ seguita alle restrizioni imposte dalla pandemia non si è tradotta in uno stato di eccezione, se con ciò si intende una negazione dei principi democratici a favore dell’instaurarsi di un potere assoluto perché giudicato come l’unico capace di fare ordine nel caos. Si sono fatte scelte democratiche in condizioni di emergenza, con l’obiettivo, in certi casi, di salvaguardare i valori, i diritti e le libertà che esigono, per la loro garanzia, una qualche autorità legittima che li faccia valere. In certe condizioni, per tutelare i diritti fondamentali di tutti, specie dei più vulnerabili, l’autorità può sospendere certi diritti meno fondamentali, o comunque non esercitabili da tutti mancando la protezione dei primi. Del resto, in una dimensione di reciprocità come quella che dovrebbe connotare la società democratica e liberale, in cui le libertà di tutti dovrebbero essere egualmente garantite e non solo formalmente riconosciute, non ci sono libertà assolute, ma libertà che vanno temperate dal diritto altrui all’esercizio dell’eguale libertà. Quel che l’autorità ha cercato di fare è stato rafforzare il godimento di certi diritti fondamentali limitandone altri, pur fondamentali, con il fine di garantire a tutti e a ciascuno le stesse condizioni per la maggiore fruizione possibile di beni e libertà nel futuro. Quanto l’autorità sia riuscita in questo intento, è ciò su cui ci si dovrà ancora a lungo interrogare. Si tratterrà di verificare se ci sia stata proporzione tra costi imposti, benefici attesi e quelli ottenuti. Si tratterrà di vagliare le ragioni che i politici hanno addotto a giustificazione del proprio operato, dal momento che stabilire alcuni diritti come prevalenti su altri è comunque una scelta di cui rendere conto, come si conviene ad un’etica della responsabilità, una decisione che deve essere compatibile con i principi fondamentali di una democrazia liberale e con i suoi irrinunciabili valori.
[1] Cfr. tra altri: R. Manzotti, #iostoacasa: come la paura e la mancanza di ragione uccidono la libertà e la democrazia, LeoniBlog, 8 aprile 2020 https://www.leoniblog.it/2020/04/08/iostoacasa-come-la-paura-e-la-mancanza-di-ragione-uccidono-la-liberta-e-la-democrazia/
[2] G. Pellegrino, Lo stato di emergenza e lo stato di eccezione: una teoria liberale. Luiss Open, 11 aprile 2020, https://open.luiss.it/2020/04/11/lo-stato-di-emergenza-e-lo-stato-di-eccezione-una-teoria-liberale/
[3] M. Tallacchini, “Preparedness” e coinvolgimento dei cittadini ai tempi dell’emergenza. Per un diritto collaborativo alla salute. Epidemiol Prev 2020; 44 (2). doi: 10.19191/EP20.2.A001.027, p. 2.