Giovanni Leghissa, “Il testimone necessario. Memoria della shoah e costruzioni identitarie”

Archivi Aperti

Photo by Malik Earnest.

Da dove viene l’ingiunzione a parlare ancora della macchina di sterminio nazionalsocialista? Ora che il dossier storiografico sullo sterminio è praticamente chiuso, ora che giornate della memoria, musei e memoriali della Shoah, gite scolastiche ad Auschwitz-Birkenau sono in grado di gestire il ricordo dello sterminio in maniera istituzionale, ora che i negazionisti dello sterminio finiscono in tribunale con gran clamore mediatico, perché sollevare ancora la questione della Shoah? Non si rischia, parlandone con eccessiva enfasi, di mettere in pericolo l’equilibrio così difficilmente raggiunto tra vittime concorrenti, equilibrio che ha permesso di affiancare, entro la retorica che regola le politiche della memoria, al genocidio perpetrato dai nazisti gli altri genocidi che hanno costellato la storia moderna? Tuttavia, ci sono buone ragioni per le quali oggi ha ancora senso focalizzare la nostra attenzione sullo sterminio degli ebrei perpetrato dal movimento nazionalsocialista. Ne individuo tre, la cui articolazione costituisce lo scopo del presente saggio. La prima riguarda il nostro rapporto con i testimoni. La seconda riguarda la necessità di ridefinire, in modo più articolato e complesso di quanto sia avvenuto sino a ora, il rapporto tra identità collettive e politiche della memoria. La terza, infine, parte dalla necessità di prendere sul serio la sfida che proviene dal modello religioso ed etico-politico che sta alla base del progetto di sterminio. Prendere sul serio questa sfida significa chiedersi quali modificazioni debbano subire quei modelli di razionalità sui quali facciamo affidamento per costruire ordinamenti politici condivisi, al fine di rendere almeno la vita difficile a quanti volessero riproporre il modello antropologico che ha trovato espressione nella pratica dello sterminio. Il che non significa solo chiedersi come fare per diminuire il numero e la portata – in termini di vittime – degli stermini a venire. Ciò significa soprattutto interrogare la possibilità di articolare un pensiero che non sia complice di pratiche di violenza estreme. Un obiettivo forse minimale, tuttavia degno di essere perseguito.

Il testimone e la verità storica

Il testimone della Shoah, scrivendo le sue memorie, andando per le scuole a raccontare quello che ha vissuto, oppure facendosi intervistare da coloro che, opportunamente istruiti sul caso, lavorano per i Fortunoff Video Archives for Holocaust gestiti dalla Yale University e per la fondazione creata all’uopo da Steven Spielberg nel 1994, si rivolge al proprio uditorio con intenzioni precise, ciascuna delle quali caratterizza in modo peculiare il suo agire comunicativo. Innanzitutto, afferma che è importante credergli, anche se magari non si ricorda più esattamente cosa davvero ha visto e provato, anche se tutti – noi che non eravamo presenti allora e lui che invece c’era – sappiamo che la sua testimonianza, da sola, non è sufficiente a ricostruire i fatti in modo rigoroso e quindi utilizzabile al fine di istituire un sapere condiviso in merito a quegli stessi fatti. Afferma inoltre che è importante serbare memoria di coloro che non sono sopravvissuti e in nome dei quali lui o lei ora sta parlando. Infine, ci invita a meditare su quanto è accaduto, affinché eventi simili non si ripetano più. Ciascuno di questi aspetti, che nell’insieme formano l’invito all’ascolto che ci viene rivolto dal testimone, merita di essere trattato con attenzione. 

In primo luogo c’è la questione della sua credibilità, la questione del credito che possiamo concedere alla sua testimonianza quale fonte da utilizzare per ricostruire i fatti di cui è stato testimone. Sarebbe insensato basare la ricostruzione dello sterminio solo e unicamente a partire dalla testimonianza dei sopravvissuti (1). Vale la pena ricordare che qui ci troviamo di fronte a un caso particolare di una questione più generale, che riguarda il rapporto tra sapere storico e autopsia. Il protostorico Erodoto (nonché protogeografo e protoetnologo) si sforza di avvertire con cura il lettore-ascoltatore che di alcuni fatti è stato testimone oculare, mentre altri gli sono stati semplicemente narrati. Eppure, sappiamo da tempo che la sua opera ci deve interessare non per i fatti che racconta, bensì per il quadro che essa ci fornisce dell’immaginario greco, ovvero del modo in cui i Greci della sua epoca collocavano se stessi all’interno di una topografia immaginaria in virtù della quale poter nominare la differenza tra se stessi e i non Greci (2). Almeno dai tempi in cui Nicolas Fréret e i sui colleghi dell’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres discettavano sulle origini di Roma, l’operazione storica si definisce come critica delle fonti, con l’intento sia di difendere il proprio statuto epistemico rispetto alle altre discipline dell’enciclopedia, sia di stabilire la natura della certezza a cui si può pervenire in virtù delle sue prestazioni (3). Nessuna testimonianza diretta può essere accolta da sola, senza il confronto con altri documenti contenuti in archivio, siano essi liste della spesa o trattati internazionali. Se la testimonianza in questione appartiene al genere autobiografico, rischia di voler offrire una ricostruzione valida anche sul piano letterario, rischia cioè di allontanarsi dal mero resoconto dei fatti; infine, va aggiunto che la testimonianza in quanto tale rischia di essere imprecisa e falsante, a causa di quel carattere costitutivamente difettoso e impreciso della memoria individuale del quale si sono occupati a lungo i filosofi prima, gli psicologi poi – e tanto ai primi quanto ai secondi non è mai sfuggita la stretta parentela tra memoria e immaginazione. Al pari del giudice o del membro di una giuria, lo storico sa insomma che la testimonianza va sempre filtrata, o per lo meno confrontata con altre fonti documentarie.

Posto che lo storico sia l’interlocutore più diretto e importante del testimone, in quanto a lui si chiede di mettere alla prova il contenuto della testimonianza, ha dunque poco senso rimproverare allo storico di essere sospettoso, oppure poco attento nei confronti del pathos che caratterizza la narrazione di eventi traumatici, tali da evocare orrore e sgomento. Come non avrebbe alcun senso muovere un rimprovero più generale, secondo cui lo storico sarebbe colui che contribuisce a un’archiviazione del passato che ha la forma di una sepoltura: proprio il fatto che la scrittura della storia renda disponibili unicamente nello spazio archiviale i fatti passati permette a questi ultimi di presentarsi a noi nella forma del mortuum, ovvero quale alterità con cui confrontarsi in vista di una ridefinizione della nostra identità di eredi e continuatori del passato (4).

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1. Ciò sia detto in rapporto a tutti i fenomeni genocidari, non solo in rapporto alla Shoah. Cfr. per esempio Totten 1999: 241-243.

2. Cfr. Hartog 1992.

3. Cfr. Fréret 1996, Borghero 1983, Raskolnikoff 1992, Leghissa 2007.

4. Cfr. De Certeau 2006: 25-120.

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