di Alberto Romele
Avevo giurato a me stesso che nulla avrei scritto sul COVID-19. Almeno non ora e non ancora. Principalmente per due ragioni. La prima è, per così dire, personale, visto che di questa pandemia sono stato vittima. Non malato, per fortuna. Ma chiuso in un appartamento parigino, con una compagna e due figli, e nel frattempo le lezioni del semestre da terminare a distanza. Ho passato settimane ad ascoltare con un misto d’invidia e rancore i racconti di quei miei colleghi che finalmente, mi dicevano, potevano leggere e scrivere senza troppe rotture di scatole, e che quello era in fondo per loro quasi meglio di un semestre sabbatico. Io, nel frattempo, il poco tempo che avevo dopo aver scolarizzato i figli, dopo averli fatti giocare in sessanta metri quadri ai pirati, alla caccia al tesoro, allo zoo, al percorso a ostacoli, dopo aver guardato con loro film Disney, video YouTube sul pangolino e sui pipistrelli, ecco, dicevo, dopo tutto questo, avevo appena il tempo di rispondere a poche email. E certo poco mi sono preoccupato di leggere le elucubrazioni di quei filosofi maestri del fast thinking che in pieno lockdown già pubblicavano su quel che sarebbe dovuto o potuto accadere dopo. Penso che ci sarebbe già qui del buon materiale su cui riflettere, sulla vita accademica, la sollecitazione o mobilitazione totale, la fatica, la guerra di tutti contro tutti, lo stress e il rischio di crollo mentale. Parlo di materiale davvero filosofico, perché non esiste ragion pura che non sia in realtà il risultato di condizioni di possibilità che qualcuno direbbe impure, materiali, tecniche e sociali.
La seconda ragione per cui ero, e sono ancora, reticente a parlare di COVID-19 riguarda invece lo statuto della filosofia. Si tratta in realtà di una doppia ragione. Innanzitutto, è questione di pudore. Un articolo pubblicato il 13 Maggio sul magazine della rivista Science sostiene che gli scienziati stanno attualmente affogando tra le pubblicazioni sul COVID-19. Ventitremila articoli scientifici tra gennaio e maggio, che pare raddoppino ogni venti giorni di media. Per questo, si stanno sviluppando degli algoritmi che possano aiutare gli scienziati a trovare i risultati più rilevanti per i loro scopi. Ora, la mia domanda è, ma abbiamo davvero bisogno di filosofi che aggiungano confusione in questa massa di scritti? Non renderemmo un servizio migliore alla società a starcene zitti per un po’ o per lo meno a parlare senza scrivere? In uno dei miei articoli preferiti in assoluto, quelli che cito in continuazione scusandomi per averlo probabilmente già citato, Franco Moretti parla del “macello della letteratura (the slaughterhouse of literature)”, ovvero del fatto che gran parte di quello che leggiamo ora – Moretti si riferisce in realtà alla sola letteratura anglosassone del diciannovesimo secolo – finirà dimenticato e perduto. Ecco, mi pare che questo sia il destino di gran parte di quello che i filosofi possono scrivere, almeno per ora, sul COVID-19. L’unica magra consolazione sarebbe allora di pensare con De André che dai diamanti non nasce niente, ma dal letame nascono almeno i fiori, e che allora un piccolo contributo alla società lo stiamo dando a nostro modo. Ma sinceramente, ho anche qualche dubbio che l’analogia regga e che i nostri scritti abbiamo le proprietà nutrienti che il letame ha per i fiori.
In secondo luogo, c’è la vecchia ragione della nottola di Minerva. Si tratta di una cosa che non smetto di constatare, occupandomi per lavoro di nuove tecnologie. Negli ultimi sette anni, ho passato almeno tre mode: le reti sociali, i big data e gli algoritmi d’intelligenza artificiale. Può davvero la filosofia restare al passo e allo stesso tempo dire qualcosa che abbia un valore ora come tra dieci anni o, immaginiamo, addirittura un secolo? Può una filosofia del digitale, e più ampiamente dell’attuale, essere più che aneddotica e saggistica? Nel caso del COVID-19, come possiamo pensare che la filosofia sia già capace di fare presa sulla realtà dell’evento, quando la polvere dovuta al crollo è ancora nell’aria e le macerie sono ancora lontane dall’essere spostate?
Ho letto poco o nulla sulla pandemia, ma ho letto un post davvero interessante della filosofa della scienza Lorraine Daston che parla di “empiricismo livello zero (ground-zero empiricism)” – col fatto che il termine inglese “ground-zero” non può che ricordare il crollo delle Torri Gemelle, e da qui la mia metafora della polvere e delle macerie. Ecco, in questo post, Daston dice che con la pandemia siamo stati catapultati indietro di secoli, come quando per i membri delle prime società scientifiche, attorno al 1660, tutto era ancora in gioco. Per loro, capire cosa fosse un fenomeno, come studiarlo, quando e dove fosse successo e, soprattutto, cosa farsene, non era per nulla scontato. Sebbene la situazione non sia proprio la stessa – abbiamo in effetti accumulato nel frattempo metodi e conoscenza – stiamo vivendo un simile momento d’incertezza scientifica: per quanto tempo la malattia può rimanere nell’aria? Alcuni farmaci antivirali aiutano ad alleviare i sintomi nei casi acuti – e per chi? Il COVID-19 causa attacchi di cuore? E c’è poi tutta quella che Daston chiama la “nebbia delle statistiche”.
Ora, la cosa interessante è che non siamo di fronte a un ground-zero che riguarda solo la scienza. Esso riguarda in effetti la totalità delle nostre esistenze. Per questo mi piacerebbe introdurre il concetto di ground-zero esistenziale. Scrivo queste righe su un treno diretto a Parigi e proveniente da Milano. Sono seduto a fianco di una signora perché nei treni francesi non c’è bisogno, dicono, di distanziamento sociale. La signora ha appena toccato il mio tavolino per alzarsi e andare in bagno. Devo disinfettarlo? Se lo disinfetto risulto maleducato? Ieri un caro amico mi ha teso la mano per salutarmi. Gliel’ho stretta. Avrei dovuto porgergli piuttosto il gomito? Avrei dovuto tenergli una lezione sull’importanza dei gesti individuali per il benessere collettivo? La prossima settimana porterò – finalmente – i miei figli dai miei genitori per qualche giorno. Faccio bene o sto piuttosto mettendo a repentaglio la loro vita per puro egoismo? Per non parlare di cose che non riguardano soltanto me ma tutta la società. Per esempio il diritto alla privacy che si scontra ora con l’altrettanto importante diritto alla salute, che a sua volta si scontra col diritto al lavoro, e tutto a rimettere in gioco il concetto di libertà.
Una cosa è certa, secondo me: per il momento siamo ancora lontani da ogni prescrizione possibile. E forse non siamo ancora nemmeno alla descrizione, alla mappatura o cartografia. L’unica cosa che possiamo fare per ora è constatare. Un risultato magro, ma comunque già un risultato. Se guardo ai miei temi di ricerca, in effetti è tutto quello che posso fare per il momento. Per esempio, posso constatare che c’è una strana insoddisfazione nell’uso degli schermi e delle connessioni digitali per alcune attività come l’insegnamento a distanza. La scorsa settimana ero membro di un comitato di tesi di dottorato a Parigi. Fisicamente, mi trovavo in Italia, infine libero dagli obblighi di presenza che ancora stupidamente attanagliano una disciplina spirituale come la nostra. Una grande gioia, dunque, eppure non posso negare che qualcosa mi è mancato. Non parlo tanto del “contatto umano” che solo “la presenza dell’altro” ti può dare. Non parlo nemmeno della coupe de champagne d’obbligo al termine di ogni discussione di tesi di dottorato che non sia stata una catastrofe. Penso piuttosto alla solennità che, come e probabilmente ancor più che per una messa in Italia, avvolge le cerimonie di conferimento del titolo di dottore di ricerca in Francia. Quel che ho sentito è una mancanza di performatività del mio atto e di quello del presidente del comitato col suo “la dichiaro dottore di ricerca”. La stessa mancanza che sento ogni volta che, in questo periodo, parlo o partecipo a un webinar, ma lo faccio con camicia sopra e pantaloni corti sotto.
Si tratta forse della stessa stupida nostalgia che taluni ancora sentono per il “profumo della carta”? Non lo so, perché è ancora troppo presto per dirlo. Ci adatteremo a questa nuova situazione e alla nostra vita onlife, come la chiama Luciano Floridi, oppure scopriremo che questa vita non solo non ci piace ma non è nemmeno possibile? Non so nemmeno questo. Il ground-zero esistenziale è la doppia idea secondo cui qualcosa è successo ma è ancora presto per dire che cosa è successo. Ed è ancor più presto per capire come fare davvero i conti con quel che è successo.
In conclusione, significa allora che doppiamo rinunciare a ogni voglia di capire, mappare e progettare? No, certo che no. I filosofi devono continuare coi loro sogni, troppo spesso infranti, di dare un contributo concreto alla creazione di nuove cose nel mondo. Quel che dico è solo che avremmo dovuto per un po’ avere più rispetto per noi stessi e per gli altri. Avremmo dovuto stare zitti, o almeno parlare poco, e scrivere ancor meno.