Cecilia Pennacini e Giovanna Santanera, “La rivoluzione digitale africana”

Alla fine del secolo scorso, Manuel Castells (2000: 92) immaginava l’Africa confinata in un apartheid tecnologico in piena età dell’informazione. Vent’anni dopo, appare chiaro che il continente è, al contrario, pienamente integrato nella rivoluzione digitale, con paesi come la Nigeria, il Sudafrica, l’Egitto e il Kenya immersi in un habitat digitale sempre più vibrante, in grado di attirare ingenti investimenti nazionali e stranieri.

In Nigeria c’è Nollywood, la seconda industria cinematografica al mondo, nata nei primi anni Novanta, quando per la prima volta il video fu adoperato per produrre lungometraggi di fiction per il mercato invece della più costosa pellicola. Il primo lungometraggio realizzato in questo modo, Living in Bondage (1992, Obi Rapu), fu prodotto con poche centinaia di dollari da un imprenditore mediatico pirata, vendendo migliaia di copie e segnando l’avvio del cinema digitale. Oggi, un po’ ovunque sul continente si producono film e serie televisive per il mercato locale e globale, che, con qualità estetica e tecnologica molto diversificata, raccontano la vita quotidiana, le difficoltà e i sogni dei giovani africani, garantendo loro una fonte di sostentamento (Jedlowski 2016; Pennacini 2016; Santanera 2020). A seguito della smaterializzazione della distribuzione e della diffusione dello streaming online sono anche cresciuti gli interessi occidentali e cinesi nel locale settore della distribuzione audiovisiva (Jedlowski 2017, Jedlowski e Röschenthaler 2017), che negli screen media africani vedono il “nuovo oro nero del continente”, “l’ultimo mercato mediatico non ancora sfruttato”[1] potenzialmente foriero di massicci introiti pubblicitari.

La telefonia mobile è un altro settore in grande espansione. Nel primo decennio del Duemila, il mercato è cresciuto in Africa a un tasso triplo rispetto agli altri continenti e attualmente sono presenti 900 milioni di abbonamenti telefonici singoli, su una popolazione di 1 miliardo e 240 milioni di abitanti. Mentre le reti di telefonia fissa erano rimaste una prerogativa dell’élite, sia durante la dominazione europea sia in età post-coloniale, la telefonia mobile ha diffuso la comunicazione vocale a distanza fra la gente comune. Investimenti pubblici e privati hanno consentito di conquistare un’utenza ampia, composta da ricchi e poveri, abitanti delle città e delle zone rurali, uomini e donne, giovani e anziani, seppure con una certa disparità (Archambault 2017; de Bruijn, Brinkman, Nyamnjoh 2009, 2013). Negli ultimi anni, la graduale diffusione degli smartphone ha marcato un’ulteriore svolta, portando la connessione internet anche a beneficio di coloro che non possiedono un computer e al di fuori degli spazi degli internet café (Burrell 2012). Il lancio da parte del marchio cinese Techno di cellulari e smartphone a basso costo (a poche decine di euro) mostra la presenza di un mercato che si estende ben oltre gli strati benestanti. Analogamente, il commercio di telefoni di seconda mano garantisce un’ampia accessibilità. Anche in questo caso, la diffusione della tecnologia mobile stimola l’occupazione e il sorgere di nuove professioni. Alcune di queste vivono nell’economia informale e garantiscono magre entrate. Si tratta per esempio, degli operatori dei cosiddetti call box (Nkwi 2016) che mettono a disposizione i loro cellulari per chiamate a pagamento (un po’ alla maniera dei passati telefoni pubblici) a chi, soprattutto nelle zone rurali, non possiede un telefono privato. In altri casi, invece, la diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione ha portato alla nascita di startup e innovativi poli tecnologici, dove ingegneri e informatici sviluppano applicazioni originali per rispondere ai bisogni della popolazione locale (Santanera 2020: 13). Nel 2022 gli investimenti in questo campo sono aumentati dell’8%, toccando i 6,5 miliardi di dollari complessivi (cifra ancora più significativa se si pensa che a livello globale gli investimenti si sono invece contratti del 35%)[2].

La diffusione della connessione internet mobile ha consentito il rapido sviluppo della cosiddetta mobile money, sempre più utilizzata in Africa dove la maggioranza delle persone non possiede un conto corrente e, parallelamente, la quasi totalità (90%) delle transazioni avviene con denaro contante. L’esempio più celebre è l’applicazione Mpesa (pesa in swahili significa soldi), un sistema per trasferire denaro tramite i cellulari che, nato in Kenya nel 2007, si è poi diffuso nel mondo (Pennacini 2022). L’e-commerce è un altro settore vibrante, con Jumia, la versione africana di Amazon, nata in Nigeria, a Lagos, nel 2012, che distribuisce in decine di paesi una gamma di prodotti sempre più variegata, dal cibo, alla tecnologia, ai vestiti fino all’apertura del servizio Jumia Travel, per prenotare online soggiorni in hotel. 

Uno scenario digitale variegato in rapido mutamento – spesso riassunto con lo slogan Africa Rising – racconta un continente che non appare essere un semplice ricettore passivo di tecnologie inventate all’estero, ma, al contrario, rivela gli innumerevoli processi di reintepretazione e appropriazione creativa di un digitale che si africanizza, mostrando una pluralità di traiettorie.

D’altro canto, la rivoluzione digitale ha anche i suoi lati oscuri: un nuovo “Scramble for Africa” sembra concretizzarsi in forme di colonialismo digitale e dei dati, questa volta a opera delle tech company globali, come Microsoft, Google e Meta. Gli ingenti investimenti stranieri in Africa e i progetti per connettere i non connessi (con strumenti, non sempre di successo, come gli internet balloon e Starlink) costituiscono strategie finalizzate ad aumentare la produzione (e quindi estrazione e vendita) di dati. Da questo punto di vista, la diffusione di tecnologie biometriche appare particolarmente problematica. Per esempio, il governo dello Zimbawe ha dato accesso ai dati facciali dei suoi cittadini alla compagnia cinese Cloud Walk, che li ha utilizzati anche per migliorare i sistemi di riconoscimento facciale, oltre che per sviluppare un sistema biometrico di voto per le elezioni del paese. O ancora, nel campo dell’aiuto umanitario, sono sempre più comuni le partnership fra ONG e organizzazioni internazionali da un lato e tech company dall’altro. In questo modo, non solo si raccolgono informazioni biometriche (per esempio tramite lo scan dell’iride) relative ai rifugiati per registrarli, ma si estraggono anche dati dai loro social media, al fine di sviluppare applicazioni di intelligenza artificiale in grado di prevedere i flussi migratori. Ne deriva il rischio di function creep, ovvero l’uso di dati sensibili a scopi commerciali da parte delle compagnie private. Così è possibile sfruttare le popolazioni più fragili e meno protette per testare nuove tecnologie prima di proporle agli utenti occidentali (Madianou 2019a; 2019b).

Riferimenti bibliografici

Archambault J. 2017,  Mobile Secrets: Youth, Intimacy, and the Politics of Pretense in Mozambique, The University of Chicago Press, Chicago.

Burrell J. 2012, Invisible Users: Youth in the Internet Cafés of Urban Ghana, MIT Press, Cambridge.

Castells M. 2000, The Rise of the Network Society: The Information Age. Economy, Society and Culture, Wiley, New York.

De Bruijn M., Brinkman I., Nyamnjoh F. (a cura di) 2009, Mobile Phones: The New Talking Drums of Everyday Africa, Langaa Research and Publishing Common Initiative Group/African Studies Centre, Bamenda/Leiden.

De Bruijn M., Brinkman I., Nyamnjoh F. (a cura di), 2013, Side@Ways: Mobile Margins and the Dynamics of Communication in Africa, Langaa Research and Publishing Common Initiative Group/African Studies Centre, Bamenda/Leiden.

Jedlowski, A. 2016, Nollywood: L’industria nigeriana e le sue diramazioni transnazionali, Liguori, Napoli.

Jedlowski, A. 2017, “African Media and the Corporate Takeover: Video Film Circulation in the Age of Neoliberal Transformations”, African Affairs, 116/465, pp. 671-691.

Jedlowski A., Röschenthaler U. 2017, “China-Africa Media Interactions: Media and Popular Culture between Business and State Intervention”, Journal of African Cultural Studies, 29, 1, pp. 1-10.

Nkwi, W.G. 2016, “From Letter Writers to Call Box attendants: Communicating in a Marginal Community in Cameroon Grassfields, c. 1940-2000”, in F. Nyamnjoh, I. Brudvig (a cura di), Mobilities, ICTs and Marginality in Africa: Comparative Perspectives, HSRC Press, Cape Town, pp. 185-197.

Pennacini C. 2016, “Ekina Uganda. La nascita del cinema ugandese”, Voci, 16, pp. 205-227.

Pennacini, C. 2022, “Innovazione dal Mediterraneo in giù”, Left, 31, pp. 20-23.

Madianou, M. 2019a, Technocolonialism: Digital Innovation And Data Practices in the Humanitarian Response to Refugee Crises, Social Media + Society, 5, 5: 1-13.

Madianou, M. 2019b. ‘The Biometric Assemblage. Surveillance, Experimentation, Profit and The Measuring Of Refugee Bodies’, Television & New Media 20.6: 581–599.

Santanera G. 2020, Camerun digitale. Produzione video e diseguaglianza sociale e Douala, Meltemi, Milano.


[1] http://www.basiclead.com

[2] https://www.wired.it/article/startup-africa-crescita/?uID=24852dc74504600c73f4d5e74dae450989e18a35629a992f4435382034f84f1f&uID=8c23e17e545050702677712dab7c8282e36a193fd5dd22ae81eb1ead0d0af7dd&utm_brand=wi&utm_campaign=daily&utm_mailing=WI_NEWS_Daily%202023-02-02&utm_medium=email&utm_source=news&utm_term=WI_NEWS_Daily


Questo articolo è parte del progetto SN-DICAP Scienza Nuova. Digital CAPital (PI: Maurizio Ferraris) finanziato dalla Fondazione CRT (Bando erogazioni ordinarie 2019)

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