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Intervista di Daniela Padoan, “il manifesto”, 25 ottobre 2005.
In apertura del suo libro, lei scrive che «la fuga è sempre la cosa più bella» e, più avanti: «Vienna è stata il primo carcere da cui non sono riuscita a fuggire». Cos’è la fuga, nella sua vita?
Quando, ormai da anni negli Stati Uniti, ho cominciato questo libro, ho voluto scriverlo in tedesco e, ogni volta che non trovavo le parole, chiedevo alla bambina austriaca che era in me di ricordarmele. In fin dei conti è vero, non sono mai andata via da Vienna, è una città dalla quale non sono mai davvero scappata, ma al tempo stesso non voglio mai stare troppo a lungo in un posto, forse perché non mi sono mai sentita a casa in nessun luogo. Se riesci ad andartene, puoi trovare posti migliori, e la maggior parte delle volte funziona. La nostra è stata una generazione di rifugiati, che si è spostata nel mondo come mai prima di allora; io sono solo una di quegli innumerevoli rifugiati. La fuga è diventata l’espressione del mio mondo e del periodo nel quale sono vissuta. Sono interamente una persona del XX secolo. E nel XXI continueremo ad avere masse di rifugiati, intere generazioni di rifugiati.
Nel suo caso, si tratta anche di una fuga dai luoghi comuni. Il suo è un libro antiretorico, scarnificato.
Ho sempre evitato il sentimentalismo. Quello che mi fa paura, nelle persone sentimentali, è che mentono sulle cose. Credere che il mondo possa andare meglio, è fare del sentimentalismo. Certo, anch’io vorrei che le cose andassero diversamente, e quando, guardando i miei nipoti, penso a un mondo migliore per loro, divento sentimentale. Ma nel mio libro – e, credo, nella mia vita – ho sempre cercato di analizzare in profondità le relazioni che le persone intrattengono tra loro, specie nell’amicizia e nella famiglia. In Vivere ancora – e questo ha dato fastidio a qualcuno – descrivo come, durante l’esperienza dei campi, le relazioni non diventassero più forti, ma continuassero invece a essere difficili e nevrotiche. La Shoah, la catastrofe, non è stata un beneficio per le relazioni familiari, è piuttosto ovvio. Eppure molta gente crede che gli esseri umani diventino migliori, attraverso le difficoltà. Perché mai circostanze peggiori dovrebbero rendere migliori le persone? Auschwitz non è stata una scuola di niente, men che meno di umanità e tolleranza. Dai campi di concentramento non è venuto nulla di buono. Mi è capitato di parlare con uno studente tedesco che si stupiva di aver conosciuto a Gerusalemme un ebreo ungherese, sopravvissuto ad Auschwitz, che detestava gli arabi. Perché, ho reagito io, quell’esperienza avrebbe dovuto renderlo più tollerante? I campi di concentramento sono stati distruttivi dell’animo umano, e non solo dei corpi; certo non una scuola di umanità.
Nel suo libro, lei parla della tentazione di identificarsi e assentire alla persecuzione. Racconta di quando guardava, ritratte sul giornale, le facce del Rassenschänder, “Il profanatore della razza”: «Erano uguali identiche a quelle dei miei zii, e io cercavo di immedesimarmi nello sguardo di coloro che ne erano inorriditi».
Gli ebrei, a Vienna, cercavano di trovare le ragioni per cui i non ebrei li odiavano, e uno dei luoghi comuni ricorrenti era che avessero troppo denaro e che lo ostentassero. Mia zia diceva che non bisognava indossare gioielli per strada, per non fare “antisemitismo”. Si cercava di non suscitare aggressività, si assumeva su di sé lo sguardo dell’altro. Era un vedersi riflessi nello specchio di occhi cattivi, per usare le parole di Yeats nel Mirror of Malicious Eyes. Non si sfugge dall’immagine che ti viene ritorta contro, si finisce per crederle. E questo è forse il veleno più profondo e insidioso del razzismo.
Lo scrittore israeliano Aharon Appelfeld, anch’egli sopravvissuto, sostiene che, a differenza di tutte le discipline che si occupano della Shoah, la letteratura è in grado di creare «quel genere di intimità che ci tocca personalmente». Cosa pensa della contrapposizione che spesso si è venuta a creare tra testimoni e storici?
Appelfeld ha ragione, ma avrei qualcosa da aggiungere; la letteratura della Shoah è una letteratura di sopravvissuti, di scampati, e questo dà la confortevole sensazione che tutti ce l’abbiano fatta, ma non dobbiamo dimenticare che la maggior parte delle persone, invece, non sono tornate, sono morte nei campi. È solo questa evidenza a poter davvero parlare della morte, e non delle sofferenze che i pochi sopravvissuti hanno patito per pochi anni; parliamo di circa sei milioni di persone che sono state uccise, e questo è ciò che i sociologi e gli storici raccontano, e non la letteratura, così abbiamo bisogno di entrambe.