Post-coronial Studies. Dopo la paura

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di Emilio Carlo Corriero

 

Confesso la mia ritrosia a scrivere a questo proposito, o per lo meno a scriverne “da filosofo”. C’è una distanza che la filosofia impone e qui è difficile mantenerla poiché è impossibile prescindere dalla propria esperienza, dalla propria reazione emotiva e dalle paure personali estese ai propri cari. D’altro canto, procedendo per generalizzazioni si rischia facilmente di scivolare in forme di psicologismo o sociologismo e di inciampare nella tentazione alla profezia solitamente catastrofica, che finisce spesso per rovesciarsi in deliranti e vani auspici per un mondo migliore.

V’è poi un ulteriore problema che riguarda il fenomeno in oggetto: si tratta di un evento dinamico in cui siamo totalmente immersi e di cui si sa ancora troppo poco, ed è facile incorrere in errori di prospettiva, che non hanno altro effetto che produrre l’ennesima sciocchezza in un mondo in cui tutti si sentono autorizzati a parlare di tutto: il danno sarebbe minimo, me ne rendo conto, ma perché non evitare? Non è da escludere che una sana sospensione del giudizio sia preferibile a sproloqui che tali rimangono pur se riccamente adornati di eleganti citazioni o di suggestive evocazioni. Il silenzio, dunque? Una necessaria pausa di riflessione? Personalmente, la preferisco, ma ciò ha a che fare con le propensioni personali e in questo non v’è nulla di oggettivo, nulla per cui si possa affermare con sicurezza che sia preferibile un composto silenzio a un esasperato moltiplicarsi di voci. Anche perché il primo può facilmente nascondere dietro il suo elegante contegno un pavido sconcerto e la totale incapacità di opporre resistenza, e l’altro può invece rivelarsi come la costante e meritoria (anche se talvolta scomposta) ricerca di risposte.

In fondo, compito della filosofia non è forse quello di interrogarsi anche (o soprattutto) quando il quadro è frastagliato e incerto e nulla di chiaro si profila all’orizzonte? Non è forse quello di cercare di conservare quella ‘tensione’ alla sapienza e per essa procedere disegnando scenari e preparando il terreno per quadri più stabili, cercando insomma di offrire quell’orientamento che manca e va ripristinato – in attesa ovviamente di nuove crisi che quell’orientamento, necessariamente provvisorio, travolgeranno e supereranno per visioni più capaci ed economiche?

È in questo spirito ed entro questi precisi limiti, che provo qui a prendere quella doverosa distanza – sebbene si tratti di una finzione necessaria e la ‘prima persona’ non possa essere del tutto dismessa –, che consenta di riprendere il filo là dove si è interrotto, o solo sfilacciato, e di argomentare attorno a un evento che attraversa e segna le nostre vite oramai da qualche mese e per il quale si avverte, dato il suo perdurare, l’esigenza di un quadro concettuale entro cui orientarsi.

Non credo alle visioni apocalittiche che accompagnano il propagarsi di questo virus, né credo agli esiti epocali che questo possa determinare. La narrazione della netta cesura tra un prima e un dopo è una facile tentazione che va evitata, poiché l’evoluzione di un processo non si comprende a partire dall’azzeramento dello stadio precedente: senza riconoscere una forte continuità dell’evento con la sua provenienza storica e con il contesto in cui accade non si comprende la crisi che si attraversa e non si possono cogliere i possibili esiti nella prospettiva corretta.

Quella che stiamo attraversando è senza alcun dubbio una crisi, nel senso pieno dell’espressione: una scissione che si verifica e richiede un giudizio nuovo capace di ricucire lo strappo che si è prodotto; un evento che caratterizza costantemente la storia che procede per l’appunto di crisi in crisi. Nel caso in oggetto si tratta di un fenomeno esteso, globale, che agisce su più livelli e che su più livelli richiede risposte diversificate e articolate. Non c’è, io credo, possibilità di ridurre questa crisi a una questione meramente sanitaria, né a una questione esclusivamente economico-sociale, né tantomeno a una questione che vada gestita soltanto sul piano politico.

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Il naturale e più o meno inconsapevole bisogno di organizzare una risposta univoca a un momento di crisi spesso comporta l’utilizzo di categorie e schemi rassicuranti, più o meno verificati in altri contesti, che possano plausibilmente essere applicati alla situazione in atto, offrendo uno sguardo di insieme capace di ridurre la questione ai minimi termini per poter organizzare, a partire da questi, una risposta adeguata che possa successivamente articolarsi su piani diversi a seconda dei campi interessati dalla crisi. È quanto è avvenuto con lo schema amico-nemico, già curiosamente utilizzato a sproposito per un’altra crisi che continua a produrre i suoi effetti, ossia il terrorismo internazionale di matrice islamista.

In questa crisi, che è in primo luogo sanitaria, la semplificazione riconducibile alla contrapposizione individuata da Carl Schmitt alla base delle categorie del ‘politico’ (anche se a me pare che abbia influito nell’immaginario collettivo certamente di più Hollywood con il suo mondo scisso in buoni e cattivi, che non il grande quanto discusso pensatore tedesco in odore di nazismo…) è stata immediatamente assunta dalla narrazione dei media e incautamente ripresa dalla politica a modello di riferimento; tuttavia, essa corrisponde più a un bisogno di rassicurazione di tipo psicologico che non a una efficace neutralizzazione concettuale. Applicato alla complessità di questo tipo di crisi, lo schema fa evidentemente acqua da tutte le parti e pur di rimanere entro quel quadro, solo apparentemente consolante ma difficile da abbandonare, si evoca lo scenario (anche questo alquanto semplificato) della ‘guerra’ in cui si fronteggiano due fazioni ben distinte: guerra al terrorismo e guerra al virus. Per un caso come per l’altro, lo schema non tiene ed è facile rinvenire i punti in cui l’analogia frana. O, meglio, se forse funziona a serrare le file in una prima fase di sconcerto generale in cui occorre, in particolare alla politica, un consenso e un sostegno che diversamente sarebbe più difficile ottenere, subito dopo, mentre la crisi persiste e continua a mordere su piani diversi eccedendo sistematicamente i confini che il modello vorrebbe imporle, si mostra in tutta la sua inefficacia e anzi produce semplificazioni e falsificazione che sono poi difficili da sradicare.

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Quali sono i nemici e quali gli amici? Già nel caso del terrorismo il nemico è in effetti ‘fra noi’ e si confonde facilmente fra quanti pensiamo ‘nostri amici’: anziché rassicurarci il modello finisce per destabilizzarci ulteriormente in una vana ricerca sui confini (di fatto assenti) entro cui il conflitto si agita. In modo ancor più evidente, ciò accade per il caso del coronavirus, in cui il nemico può albergare in ciascuno di noi e anche subdolamente diffondersi senza mostrare la propria faccia minacciosa, basti pensare alla famigerata figura del positivo asintomatico dietro cui può nascondersi financo un ‘superdiffusore’.

V’è poi il duplice problema dell’amico, ossia della comunità ristretta che si vorrebbe preservare ma che si definisce anzitutto in contrapposizione a un nemico e dunque solo reattivamente senza una base positiva su cui far leva, e dell’Amico con la maiuscola, ossia di chi dovrebbe giungere accompagnato dal grido ‘arrivano i nostri!’ a procurarci la salvezza. Nel caso del virus con cui abbiamo a che fare questo Amico è incarnato in prima istanza dalla ‘comunità scientifica’ – curiosamente ipostatizzata in un sol uomo custode del sapere da cui ci attendiamo la salvezza dal nemico, e a cui (troppo) facilmente demandiamo decisioni che eccedono i limiti di quel sapere, che peraltro si mostra inevitabilmente precario, incerto, rivedibile (ma dov’è la sorpresa? Ci si può stupire di ciò solo all’interno di una visione idolatrica della Scienza che dimentica i suoi presupposti epistemologici) e normalmente dilaniato da conflitti di interpretazione intorno a una materia tutta ancora da studiare. Conflitti che sarebbero sani e auspicabili se chiusi nella sfera di competenza e appunto all’interno della ‘comunità scientifica’, ma che diventano deleteri e dannosi se agiti pubblicamente, per un verso, a dimostrare la debolezza di quell’esercito immaginario da cui ci si attende la riscossa e infine la salvezza e, per l’altro, a contribuire al disorientamento generale delle persone in cui permangono una paura diffusa e un sospetto costante che tutto sia troppo confuso per essere vero. E se questi sono i ‘generali’, sul campo i ‘soldati’ di questa fantomatica guerra sono i medici e gli infermieri che affrontano letteralmente a mani nude il nemico rischiando sulla loro pelle, e per i quali non appare fuori luogo, specie secondo questo schema, la definizione di eroe o eroina. Questa indegna retorica della guerra non ha fatto altro che danni: esaltando il lavoro di questi professionisti del sapere, demandando loro responsabilità che sono di carattere eminentemente politico con la moltiplicazioni di comitati scientifici da cui attendersi la parola di Verità e salvezza, e spostando l’impegno professionale di medici e infermieri sul piano dell’eroico sacrificio, si è tentato di nascondere la debolezza strutturale del decisore politico, nonché di mascherare maldestramente le responsabilità di anni di tagli alla sanità e di politiche di riorganizzazione della sanità sul territorio che si sono rivelate gravemente fallimentari. Presto anche la retorica della guerra al virus ha mostrato la sua inconsistenza e per merito soprattutto di questi ‘soldati’ che, per primi, non hanno accettato l’ipocrita divisa e hanno giustamente rivendicato il loro camice e la loro professionalità che andrebbe adeguatamente riconosciuta anche sul piano economico, ben al di là dell’emergenza.

Ma lo schema amico-nemico non funziona poi nemmeno in riferimento agli esiti di medio periodo che da esso si attende il potere politico in ordine alla ordinata subordinazione ai diktat che mirano a proteggere la salute pubblica, poiché fa anzitutto leva sulla ‘paura’ nei confronti di un nemico difficile da individuare. Alla paura in fondo si finisce per rispondere con la chiusura in sé stessi, o nella ristrettissima cerchia dei propri cari, nell’isolamento dall’altro, sempre potenzialmente portatore del nemico che può uccidere o far ammalare me stesso o chi mi è caro: come attendersi da questa chiusura nell’individualismo più spinto quella responsabilità diffusa che guidi l’azione in vista di un bene comune e ampiamente condiviso?

Fra i rischi di questo utilizzo della paura – specie se indefinitamente prolungata – v’è poi anche l’insubordinazione temeraria di chi – magari forte del disorientamento generale a cui contribuiscono le voci contraddittorie degli ‘esperti’ o ispirato da un generico complottismo sempre in voga – se ne infischia e affronta spavaldo il rischio, come se il rischio lo corresse solo lui e per sé soltanto.

In questo quadro, l’errore di fondo del modello amico-nemico, che evidentemente non riusciamo proprio a dismettere, risiede nell’idea distorta per la quale dalla paura possa scaturire un’azione responsabile: così non è. Checché ne dica Jonas, non v’è alcuna garanzia che allo spauracchio per ciò che di catastrofico può avvenire a me, agli altri, al pianeta, si risponda ‘responsabilmente’, ossia con un’azione orientata a tener conto degli effetti che essa produce in vista della conservazione della specie e della natura che la ospita. D’altra parte, non è difficile osservare – e questa pandemia comincia a mostrarlo efficacemente – come vi sia un livello di paura che non si può tollerare, poiché produce ansie e disagi in taluni casi peggiori del rischio che si corre.

Agitare e cavalcare la paura può servire per qualche tempo, ma alla lunga perde di efficacia e anzi finisce per produrre effetti contrari a quelli auspicati. Muovere alla responsabilità coinvolgendo in positivo i cittadini è invece augurabile, più faticoso certamente, ma probabilmente più efficace in un’emergenza che pare prolungarsi per i mesi a venire. Ciò significa però anche puntare sulla maturità, sulla informazione (schietta ma che non miri semplicemente a impressionare) e sull’educazione dei cittadini, piuttosto che sulla loro persistente infanzia, fino a un certo punto sicuramente utile alla loro ‘gestione’ politica in casi esplosivi che si risolvono in un tempo relativamente breve, ma non in circostanze, come quelle che fronteggiamo, in cui non è chiara la prospettiva temporale e una continua tensione appare di fatto insostenibile.

Certo, si dirà che la paura da cui è possibile attendersi un certo grado di responsabilità è frutto anche di una capacità di immaginare e prevedere scenari a venire che può provenire proprio da una adeguata formazione ed educazione, tuttavia la risposta che nasce dalla paura ha sempre anzitutto in vista la propria conservazione e tutt’al più quella dei propri cari, poiché si radica in fondo in un individualismo che mira semmai semplicemente a estendere temporalmente e spazialmente l’ambito di sicurezza (o amicizia) a cui necessariamente vede contrapposta la minaccia o, appunto, la sfera di inimicizia.

La paura da sola non può orientare la nostra risposta al virus: ci blocca, ci divide, ci consegna un quadro semplificato che non risponde alla realtà dei fatti, e soprattutto ci spoglia delle nostre risorse valoriali, poiché le sacrifica sull’altare della salute (fisica), a cui certamente non vorremmo rinunciare – come dimostra la risposta pressoché comune del mondo –, ma che in sé e per sé non vale poi molto. I diritti conquistati nei secoli e che caratterizzano le nostre democrazie liberali vengono presto liquidati come secondari e superflui, e taluni folli (in fondo semplicemente per paura) ammirano e invocano i modelli repressivi di sistemi dittatoriali, dimenticando che è sempre più facile sospendere una libertà che ripristinarla.

In particolare, la libertà e la fratellanza, ossia ciò che rende autentica la relazione con l’altro fuori da ogni strumentalizzazione o vantaggio, vengono sacrificate senza troppe remore in nome di una sicurezza che non potrà mai darsi davvero: è l’effetto della paura, che tutti noi giustamente proviamo e in particolare abbiamo provato nelle primissime fasi della pandemia, una paura sicuramente fondata, ma con la quale dovremmo riuscire a fare i conti se vogliamo uscire da schemi che ci impediscono di guardare al fenomeno nella sua complessità e in una più adeguata prospettiva. In quest’ottica, la risposta alla crisi, che certamente dovrà accompagnarsi innanzitutto al superamento dell’emergenza sanitaria nel mondo, dovrà fondarsi su un assetto valoriale ben più ampio e articolato di quanto non accada nello schema amico-nemico, deciso e governato dalla paura. Ossia su di nuovo orientamento che dovrà tener conto della nostra storia, della nostra provenienza, delle nostre conquiste in termini di diritti, e saprà così riannodare i fili che questa crisi ha interrotto, magari sapendo abbandonare ciò che dell’epoca trascorsa e della crisi stessa (e delle sue tentazioni) non vale conservare.

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