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1. Prologo sintetico
Benché storia e storiografia non rappresentino settori di mia competenza, l’epistemologia della testimonianza – interesse di ricerca che nutro da tempo1 – potrebbe, da una parte, chiarire punti che concernono la riflessione sull’Olocausto[1], dall’altra essere messa essa stessa alla prova nell’affrontare una delle pagine più terrificanti della nostra storia[2]. Se in quanto segue non risalterà l’opposizione tra lo storico e il testimone oculare, non è solo perché, stando ad alcuni, questa non si dà, ma soprattutto perché tenterò di concentrarmi più sul problema del testimone-storico che non su quello del testimone oculare. Certo, forse tra i due tipi di testimoni è in atto, come è stato sostenuto, una qualche lotta per il potere; sebbene quest’ultimo presenti risvolti di tipo conoscitivo, consegno la questione nelle mani dei filosofi della politica, per affrontare qui questioni unicamente epistemologiche, con l’umiltà intellettuale che impone la persecuzione e lo sterminio efferati di troppi esseri umani nella Germania nazista e nell’Europa occupata dai nazisti.
2. Sull’individualismo epistemico
Da un certo punto di vista, semplificando, sia lo storico sia colui che percepisce i fatti rappresentano dei testimoni: il primo risulta “indiretto”, mentre il secondo “diretto”, a meno che storico e testimone oculare non coincidano. Lo storico può essere giudicato più oggettivo, il testimone diretto più soggettivo; eppure lo storico non riesce a testimoniarci molto se non fa conto (anche) sulla testimonianza del testimone diretto, anzi – è ovvio – di parecchi testimoni diretti. Lo storico può altresì essere giudicato più neutrale, in quanto soggetto conoscente “normale” che, in una situazione “normale”, getta il suo sguardo sugli accadimenti, mentre il testimone diretto può venire giudicato parziale, in quanto soggetto conoscente “anomalo” che, in una situazione “anomala”, sperimenta sulla propria pelle accadimenti oltremodo drammatici, spaventosi, tragici, perlomeno nel caso dell’Olocausto – su queste questioni mi riservo di tornare in seguito. Ciononostante, rimane vero che lo storico continua a necessitare del testimone diretto. Di conseguenza, si richiede allo storico di rinunciare all’individualismo epistemico: al fine di testimoniarci qualcosa, non gli è lecito pensarsi autosufficiente, dubitare di qualsiasi credenza che si debba agli altri, contare solo su fonti, documenti ufficiali e ufficiosi, diari, lettere, memorialistica che non presuppongono l’esistenza di più testimoni.
Le variegate espressioni dell’individualismo epistemico prevedono una forma più radicale, stando a cui nessuna credenza risulta giustificabile in base alla testimonianza, e una forma più moderata, stando a cui le credenze risultano invece tali, a patto che si riesca a ricondurre in ultimo la giustificazione a un’altra fonte conoscitiva. Radicale o moderata, per ogni forma il soggetto cognitivo si troverebbe in una sorta di perenne isolamento epistemico, tale da consentirgli completa autonomia sulla verità e/o sulla giustificazione di ogni credenza. È lampante che, a causa della necessità di ricorrere a fonti, documenti ufficiali e ufficiosi, diari, lettere, memorialistica, testimoni e via dicendo, allo storico questo tipo di isolamento non è accordato, sempre che egli/ella intenda testimoniarci qualcosa.
L’ideale (ma è tale?) dell’individualismo non ha ragion d’essere, oltre che per lo storico, per noi tutti. Se non contassimo sull’altrui testimonianza, subiremmo una grave perdita epistemica: basti pensare che non conosceremmo quei fatti ed eventi del passato (Olocausto incluso) e del presente che non percepiamo individualmente, così come quelle teorie rispetto a cui non presentiamo alcuna competenza, o una competenza sufficiente. Ci risulterebbero, tra l’altro, ignoti fatti che supponiamo di conoscere piuttosto bene: il nostro pianeta non è piatto, nella nostra scatola cranica è presente un cervello, il nostro nome è X, la nostra data di nascita cade nel tal giorno, mese e anno, i nostri genitori biologici sono Tizia e Caio, viviamo nel paese Y. Per di più, se non ci basassimo sulla testimonianza, il nostro stato epistemico e pratico consisterebbe in quello dell’età della pietra: i tanti mutui scambi informazionali e/o testimoniali non hanno forse rappresentato condizioni necessarie a quegli altrettanti progressi che ci hanno condotto all’oggi? Senza poi menzionare che il soggetto che non si affida alla testimonianza risulta «o paranoide, o assai carente dal punto di vista cognitivo, o profondamente incoerente sotto il profilo razionale» [3]. Se ciò ha senso e se, al contempo, lo storico fosse quel soggetto, gli dovremmo attribuire paranoia, lacune, incoerenza. In parole povere, ci troveremmo di fronte a uno storico quantomeno inaffidabile.
1. Sebbene in ragione di un suo significato teologico alcuni ritengano inadeguato il termine, impiegherò “Olocausto”, piuttosto che “Shoah” o “porajmos”, in quanto capace di indicare quanto il genocidio a opera della Germania nazista riguardi non solo gli ebrei o i rom.
2. I rapporti tra storia e testimonianza sono segnati da un noto e vecchio problema epistemologico, che va sotto il nome di “disappearance of history”. Non avendo qui lo spazio per trattarlo, rimando a Coady 1992: cap. 11.
3. Cfr. Fricker 2006: 244.