Inizia “Archivi aperti”

Inizia la serie Archivi Aperti con la riproposizione del numero 45 (3/2010) di “Rivista di Estetica”, Il paradosso del testimone, curato da Daniela Padoan.

Photo by Maria Teneva.

INTRODUZIONE, di Daniela Padoan

Sembra un dialogo di Beckett, invece sono le parole con cui Elie Wiesel e Jorge Semprún, invitati dalla trasmissione televisiva Entretien – ARTE per il cinquantennale della liberazione dei campi, concludevano il loro faccia a faccia nel 1995(1). «Non vorrei essere l’ultimo a sopravvivere». È un pensiero che, quindici anni dopo, mentre si pubblicano testi che apertamente, e fin dal titolo, si pongono nella prospettiva del “dopo l’ultimo testimone”, i superstiti di Auschwitz non possono che considerare sempre più attuale e inquietante. Non solo perché ogni anno la viva voce di qualcuno di loro si spegne, ma perché – nella sbrigatività con cui alcuni sembrano accompagnarli alla porta mentre altri li santificano, ostendendone nelle commemorazioni rituali la sempre più rarefatta presenza – si acuisce quello che la storica francese Annette Wieviorka chiama «il problema della tensione tra il testimone e lo storico». «Una tensione, o, meglio, una rivalità» scriveva poco più di una decina d’anni fa in un libro dall’eloquente titolo L’era del testimone «e perché no, una lotta per il potere che sta al centro degli attuali dibattiti sulla storia del nostro tempo, ma che ritroviamo anche in altri campi, allorché l’espressione individuale entra in conflitto con un discorso scientifico»(2).

Chiedersi come questa “lotta per il potere” si declini, chi l’abbia ingaggiata e che cosa produca, così come interrogarsi sulla malsana gerarchia tra “espressione individuale” e “discorso scientifico” – nonché sul motivo per cui due tra i più grandi intellettuali usciti dai campi nazisti fossero concordi nel prevedere quell’“alzata di spalle” di fronte all’ultimo testimone – è tra gli obiettivi di questo numero. Perché se, come sostiene Wieviorka, «di fronte alla testimonianza del deportato lo storico si trova in una posizione impossibile», è vero soprattutto il contrario.

Non si tratta di rinfocolare una contrapposizione, insensata prima ancora che sterile, tra storiografia e testimonianza, quanto di ragionare sulle retoriche e i cortocircuiti con cui pensiamo l’esperienza della Shoah, la sua possibilità di essere narrata e il suo farsi storia; di dare ospitalità a chi continua a portare l’esperienza e il racconto dello sterminio, interrogandoci sulla qualità del nostro ascolto; il che implica un tentativo di pensare il rispetto non come “sentimento buono” ma come categoria politica: che cosa produce, infatti, una società incapace di rispettare i testimoni del suo stesso limite estremo?

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1  Semprún e Wiesel 1996: 45-46.

2  Wieviorka 1999: 141.

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