Hanna Kugler Weiss, “Una pietrina nel grande muro che si chiama shoah”

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Photo by Grianghraf.

Sono passati sessantacinque anni da quando sono stata caricata su un treno merci e portata nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Ero una ragazza di sedici anni. Dopo otto mesi e mezzo di prigionia, sono stata liberata dall’arrivo dell’Armata rossa, nel gennaio del 1945. Nell’ultimo mese ero diventata ciò che nel gergo del Lager veniva definito un “musulmano”. Ho cominciato a raccontare solo nel 1968; erano passati ventitré anni. Non è semplice da spiegare. È stato come aprire una finestra, tutto ha cominciato a uscire, a volar fuori; sono arrivati i ricordi, le immagini di quello che per tanto tempo era rimasto silenzioso nella mia mente. Dal giorno in cui avevo messo piede in Israele, nel 1949, avevo dovuto, e a dire la verità anche voluto, occuparmi di altre cose: era un paese straniero, sconosciuto, dove tutto era da ricominciare. Per me era stato come chiudere un diario giunto alle ultime pagine per riaprirne uno nuovo, pulito, senza nemmeno una parola già scritta. Dovevo imparare la lingua e l’ho imparata per strada, parlando con la gente. Per vent’anni non ho più pronunciato una parola in italiano. Leggere, sì; e le parole incrociate, quelle le ho sempre fatte nella lingua che avevo appreso da bambina, così come i conti.

Lavoravo come infermiera in una scuola e un mattino, era il Giorno della memoria, un’insegnante mi disse: “Hanna, te la senti di venire a raccontare qualcosa ai ragazzi?”. Ho iniziato a testimoniare così, di punto in bianco, non perché mi sentissi pronta, ma perché qualcuno me lo aveva chiesto. Nei vent’anni precedenti non era mai successo. Ero preoccupata, non sapevo da dove avrei cominciato, non avevo neanche un po’ di tempo per prepararmi; fatto sta che mi sedetti e d’improvviso fu un affollarsi di ricordi che non sapevo di aver conservato; ogni momento un altro ricordo, un’altra immagine del campo, della mia vita nel campo. Ho parlato solo di quello. Non dell’arresto, della deportazione, del ritorno, ma del campo. Credo di essere andata avanti ininterrottamente per un’ora e mezzo. Alla fine ero stordita, non ricordavo quasi nulla di quello che avevo detto. Non ero io ad aver parlato; era quell’Hanna di sedici anni, che era lì, a Birkenau.

Quando, qualche tempo dopo, ascoltai la registrazione, cominciai a capire delle cose che prima non mi avevano mai disturbato; pian piano arrivai a rendermi conto che avevo fatto parte di quella grande cosa che si chiama Shoah. Ero stata una pietrina in quel grande, grande muro. Ma ci sono voluti degli anni, per comprenderlo.

Qui in Israele la gente non capiva, non sapeva. Sì, avevano sentito parlare di milioni di ebrei assassinati in Europa, ma i sopravvissuti non erano ben visti. Non è stato facile. Non dico tanto per i giovani, che in qualche modo sono riusciti a mettere tutto da parte e a ricominciare una nuova vita – io, per esempio, mi sono sposata qui, ho messo su famiglia, ho iniziato a lavorare – ma per la gente più anziana, che aveva perso tutta la propria famiglia, sia quella d’origine che quella che si era costruita in seguito: la moglie, o il marito, e i figli. Loro non erano liberi. Si trascinavano appresso quella grande zavorra di tragedia e non volevano parlare, perché, tanto, chi gli dava retta?

Chi ci sentiva, credeva che fossimo diventati matti: non potevano comprendere, e d’altra parte noi non sapevamo nemmeno come farci capire. Oggi il mio racconto è organizzato, lineare, ma allora raccontavo così, simultaneamente. Quello che è successo è una cosa quasi inumana, come si poteva concepire? Chi poteva credere che scendessimo da un vagone dopo aver passato giorni e notti chiusi, senza cibo, senza acqua, lerci, stanchi, affamati, e che una piccolissima parte di noi veniva scelta – momentaneamente – per la vita, mentre gli altri venivano mandati a morire nelle camere a gas? Chi poteva immaginare una cosa del genere, quando neanche noi sapevamo come spiegarlo, perché neanche noi lo avevamo compreso? Sapevamo che era successo, certo; lo avevamo visto, lo avevamo patito, lo avevamo sempre negli occhi, ma come far capire a un altro una cosa che resta incomprensibile a te per prima?

Dopo essere sopravvissute a quell’incubo, le persone anziane rimasero del tutto abbandonate a se stesse. Molte di loro erano rimaste sole. Non è difficile immaginare una donna che ha perso la famiglia, i figli, e che, arrivata in Israele, non sa come arrangiarsi. Vive un immenso dolore e non sa esprimersi, non sa parlare la lingua. La notte ha degli incubi; ormai lo sa, e allora forse non vuole dormire, scende in strada a camminare. Cominciano a chiamarla matta. È una cosa che inizia nel rione dove abita. Magari i vicini non possono dormire perché piange, qualche volta grida tutta la notte. Molta gente è stata ricoverata nei manicomi. Nessuno sapeva come curarli, nessuno capiva quello che avevano passato, né che quel dolore non finiva con la guerra e la liberazione dai campi; quel dolore restava intatto anche dopo, quando per gli altri era solo un passato da dimenticare. Ci voleva un’enorme forza di volontà per uscirne come persone normali. Io ce l’ho fatta, ma solo perché ero giovane. Cercavo di non pensare a quello che avevo passato e di concentrarmi sull’oggi. Non è stato facile, anche perché in Israele non ci stimavano, ci accusavano di essere andati al massacro come pecore al macello, senza ribellarci. Per loro, gli eroi della Shoah erano i rivoltosi del Ghetto di Varsavia; erano loro a essere ricordati nel Giorno della memoria, mentre per noi, quelli venuti fuori dai campi, c’era appena qualche parola sbrigativa. Tutte le canzoni, tutte le cerimonie erano fatte per rendere onore a quelli che si erano ribellati: loro erano gli esempi.

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