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Vedi, vedi: sono là, tutti, mi circondano da lontano e da vicino
E tutti – un fremito terribile percorre e scuote tutto il mio essere –
Tutti mi fissano con gli occhi di Bension e Yamele, i miei bambini,
Mi fissano con gli occhi tristi e desolati della mia compagna…
Con i grandi occhi azzurri di Berl, mio fratello, – sì!
Donde viene loro questo sguardo? Ma eccolo, lui stesso!
Cerca i suoi bambini e non sa che sono là,
Là, tra milioni d’altri. Io non posso dirgli niente…
Itzhak Katzenelson [1]
Non ho iniziato con le grandi domande,
perché temevo delle magre risposte.
Raul Hilberg [2]
Nell’ottobre del 1943, Itzhak Katzenelson, poeta e drammaturgo di lingua yiddish, aveva cinquantotto anni. La moglie e i due figli più piccoli erano già stati gassati a Treblinka nell’agosto del 1942, ma lui e Tzvi, il primogenito, erano sopravvissuti alle grandi deportazioni dell’estate ed erano rimasti all’interno del ghetto. Nel marzo 1943, a insurrezione iniziata, il poeta e il figlio diciottenne, grazie all’aiuto dei resistenti ebrei, riuscirono a passare nella parte “ariana” di Varsavia, muniti di falsi visti per l’Honduras. Il 22 maggio 1943, quando ciò che rimaneva del ghetto era già stato raso al suolo dalle truppe di Waffen SS e di ausiliari ucraini del SS Brigadeführer Jürgen Stroop, i due vennero presi dai tedeschi e trasferiti con un gruppo di ebrei di Varsavia nel campo di transito francese di Vittel, stazione termale della Lorena, in vista di un ipotetico scambio di prigionieri con detenuti civili tedeschi. Un anno di proroga, poi un altro trasferimento a Drancy, e da lì ancora un trasporto, l’ultimo, il settantaduesimo RHSA dalla Francia [3], di nuovo verso la Polonia, ad Auschwitz, dove padre e figlio vennero immediatamente inviati alla camera a gas, nella notte fra il 30 aprile e il primo maggio 1944.
Fra l’ottobre 1943 e il gennaio 1944, Itzhak Katzenelson aveva composto i quindici canti di quindici strofe ciascuno che costituiscono “Dos Lid fun oisgehergetn yiddishn folk”, Il canto del popolo ebraico massacrato [4]. Il testo era stato nascosto in tre bottiglie interrate sotto le radici di un albero da Miriam Novitch, anch’essa internata a Vittel, che le dissotterrò subito dopo la liberazione del campo, il 13 settembre 1944. Nello stesso momento in Polonia, a Birkenau, nell’“epicentro della catastrofe”, anche alcuni membri del Sonderkommando sotterravano bottiglie, borracce, recipienti di vetro. Nei pressi del Crematorio III, Salmen Gradowski, preoccupato del fatto che «di recente hanno incominciato a far sparire le tracce e ovunque fossero in quantità le ceneri, hanno dato l’ordine di macinarle fini fini e di gettarle nella Vistola per abbandonarle alla corrente», il 6 settembre 1944 scrive al “caro scopritore”: «Cerca dappertutto, in ogni centimetro di terra […] qui sotto ci sono sepolti una decina di documenti […] vi è sepolta anche una gran quantità di denti. Noi li abbiamo sparsi apposta sul terreno, quanti più abbiamo potuto, perché il mondo potesse trovare le tracce concrete dei milioni di uomini ammazzati. Anche noi abbiamo perduto la speranza di sopravvivere fino al momento della liberazione» [5]. Fra i manoscritti ritrovati, in una borraccia di alluminio tedesca chiusa da un tappo di metallo, il suo taccuino, con il racconto del viaggio, della selezione, dell’assegnazione al Sonderkommando, e una dedica: «In memoria della mia famiglia, bruciata viva a Birkenau: mia moglie Sonia, mia madre Sara, mia sorella Ester-Rachele, mia sorella Liba, mio suocero Rafael, mio cognato Wolf» [6].
La prima edizione di Dos Lid uscì a Parigi, nell’originale yiddish, nel 1945, subito dopo la fine della guerra. A detta di Primo Levi, che più di vent’anni dopo scrisse la prefazione alla prima edizione italiana, il Canto è la voce di un morituro, uno fra centinaia di migliaia di morituri, atrocemente consapevole del suo destino singolo e del destino del suo popolo. Non del destino lontano, ma di quello imminente: Katzenelson scrive e canta nel mezzo della strage, la morte tedesca si aggira intorno a lui, ha già compiuto il massacro più che a metà ma la misura non è ancora colma, non c’è tregua, non c’è respiro: sta per colpire ancora e ancora, fino all’ultimo vecchio e all’ultimo bambino, fino alla fine di tutto [7].
Levi è qui ancora lontano dalle riflessioni sui “veri testimoni” che sembrano assalirlo “a un’ora incerta”, verso la fine della vita, ma indica già l’assoluta unicità di un’opera concepita nell’imminenza, nella prossimità della morte e alla morte, e non a una morte qualsiasi, ma a una morte “tedesca”. Come si può scrivere, mentre la morte ti «si aggira intorno»? Come si può comporre un canto non dopo, ma dentro la Shoah? Katzenelson ci dice subito che può cantare solo in presenza degli scomparsi, evocandoli, richiamandoli in vita nella poesia, prima di scomparire a sua volta, quasi la parola, per essere, non potesse avere altra modalità espressiva del grido:
Come cantare ora che il mondo è vuoto?
Come suonare con queste mani legate? Dove sono i miei morti?
Io cerco i miei morti massacrati, oh Dio! in ogni mucchio di immondizie,
In ogni cumulo di cenere. Dimmi, dove sono?
Oh gridate, da ogni lembo di sabbia, gridate, da sotto ogni pietra!
Gridate da ogni ventata di polvere, da ogni fiamma, da ogni fumo che sale,
Fate udire la voce del vostro sangue, del midollo delle vostre ossa,
Della vostra carne e del vostro respiro. Gridate, gridate forte.
Gridate dalle viscere delle belve che abitano le foreste, da quelle dei pesci nell’acqua!
Essi si sono nutriti di voi. Gridate dai forni di calce viva.
Voglio udire il vostro grido, la vostra voce, i vostri singhiozzi.
Grida, Popolo ebreo massacrato, grida forte.
[…]
Oh mostrati, mio Popolo. Tendete le mani
Dalle fosse lunghe e profonde dove allineati riga sopra riga
Vi si ammucchiava, coperti e bruciati dalla calce.
Alzatevi, uscite dall’ultimo, dal più profondo strato.
Venite tutti, da Treblinka, da Sobibor, da Auschwitz,
da Belzec, venite da Ponary, e da tanti luoghi ancora,
Venite con i vostri occhi scoppiati, e un grido pietrificato nel petto dei vostri muti singhiozzi.
Sorgete dalle paludi, voi, affogati nel fango, imputriditi nel muschio, venite!
Venite, voi mummificati, calpestati, levatevi in piedi,
Allineatevi intorno a me,
Voi, nonni e nonne e giovani madri con i bambini in collo,
Venite, ossa e carne di Ebrei ridotti in polvere e in sapone…
Venite, che io vi guardi, tutti, tutti.
Io voglio contemplarvi, io voglio
Gettare un ultimo sguardo sul mio Popolo massacrato
E voglio cantare. Datemi l’arpa. Ecco, io suono [8].
1. Katzenelson 1966: 10-11.
2. Hilberg, in Lanzmann 1987: 86.
3. Czech 2005: 656.
4. In Italia esistono tre edizioni del Canto: quella del 1966, curata e tradotta dalla stessa Miriam Novitch e da Fausta Beltrami Segrè, che viene qui utilizzata; quella di Sigrid Sohn e Daniel Vogelmann, edita da Giuntina nel 1995 e intitolata Il canto del popolo ebraico massacrato, e la più recente, curata e tradotta da Erri de Luca, edita da Mondadori nel 2009 con il titolo Canto del popolo yiddish messo a morte.
5. Saletti 1999: 73-74.
6. Ivi 37.
7. Levi, in Katzenelson 1966: 5.
8. Katzenelson 1966: 14.