Post-coronial Studies. Il diritto alle cure a la responsabilità per la salute

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di Massimo Reichlin

 

«La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti». La pandemia da coronavirus ci ha indubbiamente richiamato l’importanza di queste parole, che figurano all’articolo 32 della nostra Costituzione; ma soprattutto ha mostrato l’importanza di sottolineare, assieme al primo, anche il secondo elemento. La salute – lo si ripete spesso – è un diritto; o meglio, è un diritto fondamentale (l’unico al quale i costituenti riservano questo aggettivo) ricevere le cure mediche appropriate e proporzionate per la propria patologia. Un sistema pubblico come quello italiano garantisce tale diritto come parte dell’impegno collettivo a rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la sua effettiva partecipazione alla vita pubblica (art. 3). Meno spesso, però, si insiste sul secondo elemento: la salute, e qui s’intende senza dubbio lo stato di salute, l’essere in buona condizioni fisiche, è anche un interesse della collettività. Il caso del Covid-19 – una malattia infettiva ignota, rispetto alla quale non vi erano (almeno all’inizio) farmaci in grado di contrastarla e non vi è, ancora oggi, un vaccino capace di prevenirla – mette in particolare evidenza quanto sia nell’interesse di tutti che ciascuno, per quanto possibile, sia sano. Abbiamo dovuto imparare a “proteggerci” dagli altri, quasi a sospettare, nella persona che ci passa accanto, una possibile fonte di contagio; per contrastare il diffondersi del virus e prevenire il collasso del sistema sanitario, è stata necessaria, e si è fortemente caldeggiata, la massima responsabilità di ciascuno per la propria salute, in quanto tale cura di sé rispondeva all’interesse supremo della collettività. È emersa con forza, in altri termini, quell’idea generale, che la Costituzione richiama fin dall’articolo 2, di una stretta relazione tra l’affermazione dei diritti delle persone e la definizione dei loro doveri, ossia della responsabilità che ciascuno ha nei confronti della collettività. È solo grazie alla responsabilità che ciascun cittadino, nel suo diverso ruolo, esercita che è possibile sostenere e difendere un sistema pubblico di cure sanitarie, a sostegno di un bene che per l’appunto è definito fondamentale.

La cultura contemporanea insiste giustamente sui diritti dell’individuo. Questa concezione liberale sta alla base anche della bioetica, come movimento filosofico e culturale volto a riequilibrare i ruoli all’interno della relazione medico-paziente, garantendo alle persone il diritto di conoscere la verità sulle proprie condizioni mediche, di partecipare attivamente alle scelte sulla propria salute, di poter rinunciare ai trattamenti che non desiderano ricevere. La parola d’ordine della bioetica, dagli anni ’70 in avanti, è stata l’autonomia o autodeterminazione individuale; alla luce di questa giusta rivendicazione è stata anche riletta la seconda parte dell’art. 32 della Costituzione, secondo il quale “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Autonomia significa imporre a se stessi una regola o una legge e non riceverla da altri; si tratta di un principio inoppugnabile, fintanto che le scelte che si compiono riguardano soltanto se stessi, ma che richiede dei limiti quando sono in gioco interessi altrui.

La bioetica ha giustamente censurato il paternalismo insito nella prassi medica tradizionale; quel modello antico per cui il medico decideva liberamente che cosa sia il bene di un paziente ignaro (e spesso ignorante) evidentemente non poteva più funzionare in un contesto come quello delle odierne società avanzate. La pandemia ha però fatto emergere con forza l’impor­tanza di altre parole d’ordine: responsabilità per la propria salute, responsabilità per la salute altrui, solidarietà sociale, priorità degli interessi collettivi. In nome di queste parole, si sono posti limiti alla libertà individuale di circolare, alla libertà di incontrarsi e di agire collettivamente, alla stessa possibilità di assumersi dei rischi per la propria salute. Alcuni di questi vincoli, se non tutti, in altri momenti sarebbero stati tacciati di pater­nalismo; l’evidenza drammatica dei dati sciorinati ogni giorno su contagi, pazienti in terapia intensiva e defunti ne ha giustificato eloquentemente la necessità. Una simile responsabilità di ciascuno per la collettività, in ultima istanza, è apparso un mezzo necessario per garantire quel diritto individuale di ricevere le cure. Ciò che la situazione di emergenza ha fatto emergere con chiarezza è pertanto il nesso tra i due elementi: solo in un sistema che fa della salute di tutti un interesse della collettività è possibile garantire il diritto di ciascuno a ricevere cure sanitarie adeguate.

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Il tema che questa esperienza drammatica sembra proporci per il futuro è quello di definire un trade-off tra libertà individuale e responsabilità per la salute. L’insegnamento da trarre, infatti, è, da un lato, l’importanza di avere un servizio sanitario pubblico efficiente, che sia in grado – grazie all’impegno ammirevole dei suoi lavoratori ma anche a un’adeguata dotazione di strutture – di fronteggiare emergenze come quella di fronte alla quale ci siamo trovati; dall’altro, l’importanza di un sforzo di prevenzione delle malattie per garantire la sostenibilità del sistema e il rispetto del diritto alle cure. Prevenzione significa vaccinazioni, adozione di stili di vita salubri, limitazione dei comportamenti a rischio; in sostanza, un qualche vincolo da porre alle scelte individuali, in nome dell’appartenenza a una comunità.

La sfida è delicata, dal momento che l’insistenza sulla responsabilità per la salute propria e altrui può degenerare in atteggiamenti e politiche discutibili e preoccupanti. Si sono osservati spesso, nei mesi che stanno alle nostre spalle, atteggiamenti eccessivamente censori nei confronti del comportamento altrui e talvolta anche un’implicita (e forse inconsapevole) volontà di repressione da parte di chi deteneva il potere decisionale. Si è anche ripetuto sovente “la salute prima di tutto”, ma correndo talvolta il rischio di sottovalutare i costi, individuali e collettivi, di un’eccessiva limitazione della libertà. Vivere in un’ipotetica, perenne fase 1, ossia in una libertà strettamente vincolata da divieti e sanzioni, è una condizione innaturale e pericolosa che può generare atteggiamenti rinunciatari e deresponsabilizzanti; del resto, spingere il discorso sulla responsabilità per la salute fino a giustificare una sorta di dovere di essere sani è problematica e paradossale. Infine, l’enfasi sulla responsabilità per la propria salute può anche spingere a utilizzare tale criterio per definire le priorità allocative, privando dei trattamenti necessari soggetti che tengono comportamenti a rischio; una simile ipotesi, ampiamente discussa e in parte anche utilizzata in altri contesti, dev’essere senz’altro respinta perché conferisce al servizio sanitario l’incongruo compito di formulare giudizi morali sui comportamenti individuali. Che il servizio sanitario nazionale possa e debba svolgere anche un compito di educazione alla salute e di promozione degli stili di vita più appropriati dal punto di vista medico è sen­z’al­tro parte dell’idea di salute pubblica; che possa stabilire liste di priorità nel trattamento in relazione al rispetto o alla violazione di regole di comportamento è certamente inaccettabile.

Picture2L’esperienza del Covid-19 ci invita a ripensare l’assoluta centralità dell’autonomia individuale e del diritto alla salute e ad impostare un discorso più complesso che articola autonomia e senso di responsabilità. Ne parlava già, una ventina d’anni fa, Daniel Callahan, uno dei fondatori della bioetica americana, introducendo l’idea di una “medicina sostenibile”. La sua polemica era contro le false speranze alimentate dalla medicina ipertecnologica che, sopravvalutando il proprio contributo all’innalzamento dell’attesa di vita e all’aumento del benessere, da un lato sottostima l’importanza degli stili di vita, dall’altro produce irragionevoli incrementi della spesa sanitaria, nella ricerca ossessiva del progresso medico e scientifico. L’ideale di una medicina sostenibile è invece quello di garantire a tutti un livello sufficiente di cure atte a consentire di compiere il proprio ciclo di vita in maniera adeguata. Ciò comporta attribuire una decisa priorità all’assi­sten­za di base e alla medicina di emergenza, ai programmi di monitoraggio, di screening, di promozione della salute e di prevenzione delle malattie e alla cura dei sintomi per coloro cui non si possono fornire terapie efficaci.

La pandemia da coronavirus mette indubbiamente al centro dell’attenzione questa nozione di sostenibilità. Poiché è probabile che in futuro ci saranno nuovi agenti virali in grado di proporre al nostro mondo globalizzato sfide analoghe a quella che stiamo affrontando, abbiamo ottime ragioni per ripensare le future priorità dei nostri sistemi sanitari; invece di puntare a obiettivi straordinari, come l’ulteriore innalzamento dell’attesa di vita o il miglioramento delle capacità di prolungare la vita con mezzi artificiali, è ragionevole mirare a fornire a tutti le misure mediche, igieniche e ambientali che consentono di prevenire le malattie ed evitare una morte prematura.

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