
di Dario Piumetti
Contro l’idea che la pandemia possa aver aperto la via per una rivoluzione “smart” della didattica in grado di risolvere le problematiche e i grovigli che attanagliano la scuola, si potrebbe forse sostenere, parafrasando Simmel, che è il “tipo scolastico in dad” – e non solo quello “metropolitano” – a tentare di crearsi «un organo di difesa contro lo sradicamento» minacciato da «i flussi e le discrepanze» dell’ambiente all’interno del quale si trova a vivere[1]. L’onere di doversi inventare un nuovo spazio di lavoro, di doversi procurare l’adeguata strumentazione tecnologica per poter svolgere le proprie mansioni e di dover rispondere dell’effettivo funzionamento di essa implica infatti una riduzione di opportunità e di diritti che dovrebbero invece essere garantiti secondo la Costituzione. L’articolo 3, per esempio, afferma che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana[2]». È chiaro, dunque, che, nella misura in cui saranno le condizioni sociali, economiche e ambientali a definire per gli studenti la qualità degli spazi che essi potranno utilizzare per partecipare alle lezioni e dell’attrezzatura tecnologica della quale potranno usufruire per connettersi virtualmente, tale compito non potrà considerarsi assolto. Non solo: anche la possibilità di premunirsi contro eventuali rischi di malfunzionamento delle apparecchiature dipenderà, evidentemente, da tali condizioni. Inoltre, per quanto riguarda alcune modalità di verifica dell’apprendimento a distanza, all’interno di certi contesti[3], sembra esserci una incompatibilità con l’articolo 14 della Costituzione[4]. Come può infatti rimanere inviolato quel domicilio che deve invece essere monitorato affinché il docente possa controllare che i suoi studenti non tentino di “barare” durante un esame? Qualora poi si pretendesse di esercitare tale controllo tramite l’utilizzo di più dispositivi aventi il compito di inquadrare la postazione di lavoro da molteplici angolature per smascherare ogni possibile tentativo di frode, allora è chiaro che quel diritto alla riservatezza del proprio spazio personale non potrebbe affatto dirsi rispettato.
Ancora, è interessante quanto scritto da J. M. Bergoglio nell’enciclica Laudato si’: «I mezzi attuali permettono che comunichiamo tra noi e che condividiamo conoscenze e affetti. Tuttavia, a volte anche ci impediscono di prendere contatto diretto con l’angoscia, con il tremore, con la gioia dell’altro e con la complessità della sua esperienza personale[5]». La “dad” conduce a questo impoverimento dell’esperienza relazionale che si genera nell’incontro tra sé e l’altro – la riduzione di quella «complessità della sua esperienza personale[6]» – e nel momento in cui lo spazio domestico viene riadattato a spazio di lavoro, comportando un significativo ridimensionamento della varietà di ciò che è permesso esperire nell’arco del vivere quotidiano.

La scuola consente quell’interazione tra individui che è alla base della vita sociale: togliere ai giovani la possibilità di incontrarsi, di stringere rapporti di amicizia e affetto, di imparare a relazionarsi tra pari significa impedire proprio quei legami che sono indispensabili per il funzionamento di essa. Senza contare che i soggetti più fragili e meno propensi alla socializzazione rischiano di essere spinti verso la totale assenza di legami sociali al di fuori del contesto familiare[7]. Per questo la “dad” potrebbe essere descritta come didattica “dei mezzi”: una modalità di insegnamento che, fondandosi non su di un principio etico corrispondente alla diffusione di un sapere emancipatorio per tutti, ma su di un principio “economico” che si identifica con la ricerca della massima efficacia dei mezzi per il conseguimento di un certo fine, impoverisce l’esperienza scolastica e universitaria, eliminando quella molteplicità di stimoli, percezioni, scambi, relazioni e dialoghi che accompagnano e strutturano la vita scolastica in presenza. Se è vero che l’ambizione non solo formativa alla quale anela la scuola è quella di essere uno spazio capace di incentivare la crescita umana dei suoi fruitori e non soltanto di contribuire alla produzione di nuovi professionisti per il mondo del lavoro, allora la didattica “dei mezzi” non sembra essere in grado di soddisfarla. Tale modalità di insegnamento, se adottata, contribuirà ad una ridefinizione della scuola secondo un modello che è simile a quello utilizzato in agricoltura negli allevamenti e nelle colture intensivi, laddove il primato dell’efficacia dei mezzi e del rendimento quantitativo comporta una drastica riduzione della resa qualitativa dei prodotti, contribuendo a noti esiti nefasti per l’ecosistema e per la stessa vita umana, come perdita di biodiversità, modificazione incontrollata dell’ambiente, diffusione di regimi alimentari poco sani, ecc…[8]
Analogamente gli studenti, ben lungi dal vedersi offerta una nuova e innovativa opportunità per studiare e apprendere in grado di risolvere rapidamente quei problemi che la precedente non era stata in grado di eliminare, verranno privati del senso e del valore di una istruzione emancipativa, vincolati a discriminazioni di carattere economico, sociale e ambientale ed esposti a forti pressioni sul piano emotivo. Quello che la didattica a distanza potrà offrire loro altro non sarà che la “confezione vuota” della scuola, ossia una strumentalità caratteristica del funzionamento dei mezzi tecnologici coi quali essa intenderà presentarsi. È allora evidente che il prezzo da pagare per una scuola fondata su un tale modello consisterà in una cospicua limitazione di quella connotazione universalistica che dovrebbe invece sempre essere presente quando si tratti di servizi funzionali a garantire il rispetto e la tutela dei diritti fondamentali.
Il presente articolo è risultato vincitore del concorso, organizzato dal Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università di Torino, “Quale didattica post-covid”, Cat. A – Saggio breve o articolo scientifico.
[1] G. Simmel, La metropoli e la vita dello spirito, a cura di P. Jedlowski, Armando, Roma 2011, p. 37.
[2] Art. 3: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese».
[3] Ad esempio, la circostanza in cui uno studente si connetta da dentro casa sua per sostenere un esame orale.
[4] Art. 14: «Il domicilio è inviolabile. Non vi si possono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri se non nei casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale. Gli accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e di incolumità pubblica o a fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali».
[5] J. M. Bergoglio, Laudato si’, Edizioni San Paolo, Milano 2015, p. 60.
[6] Ibidem.
[7] Si pensi poi, per esempio, al caso in cui già il contesto familiare non fosse in grado di offrire molte occasioni di relazione, o non fosse capace di offrirne di sane, ecc…
[8] Per farsi un’idea generale sulle problematiche relative alla coltivazione e all’allevamento intensivi si segnala l’interessante lavoro giornalistico svolto da M. Pollan nei primi anni duemila negli Stati Uniti: M. Pollan, Il dilemma dell’onnivoro, Adelphi, Milano 2008.