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Intervista di Daniela Padoan, Gerusalemme, 14 giugno 2010.
Parlando della testimonianza della Shoah, lei ha scritto che, a differenza di altre discipline, dalla sociologia alla teologia, «la letteratura dice: “Guardiamo questa particolare persona. Diamole un nome, un luogo. Offriamole una tazza di caffè”. […] La forza della letteratura risiede nella capacità di creare un’intimità. Quel genere di intimità che ci tocca personalmente» (1). Che cosa intende, con “intimità”?
“Cosa desideri, posso darti una tazza di caffè, posso offrirti un pezzo di torta?” Nel momento in cui pronunci queste parole sei umano, e il tuo interlocutore diventa umano. È nell’attitudine di dare, di offrire qualcosa, che il dialogo fra te e l’altro – non l’altro astratto, ma proprio la persona che hai di fronte – assume dimensione umana; è solo rivolgendoti a una persona usando la seconda persona, usando il tu e non l’egli, che umanizzi la relazione. La letteratura può fare questo. È evidente che, per letteratura, non intendo il mucchio di fantasie scritte sulla Shoah, le produzioni commerciali, le storie perverse, i testi concepiti per fare sensazione o scandalo da cui purtroppo siamo stati inondati dalla fine della Seconda guerra fino a oggi. Non occorre molto tempo per enumerare i testi sulla Shoah che abbiano un volto, una voce autentica.
Ritiene necessario che la letteratura sulla Shoah sia opera di persone che ne hanno avuto esperienza?
Chi non ha vissuto l’Olocausto non lo conosce. E perché si dovrebbe scrivere di qualcosa che non si conosce? Si dovrebbe scrivere, invece, di cose che si conoscono; che si conoscono intimamente. Se non hai intimità con ciò di cui scrivi, di cosa puoi scrivere? Molti storici scrivono sull’Olocausto, e molti scrittori scrivono sull’Olocausto; cercano di immaginarlo. Bene. Ne verrà fuori una nuova verità? Ne dubito.
Tolstoj ha scritto delle guerre napoleoniche pur senza avervi preso parte, e sono in molti a sostenere che Guerra e pace sia il libro che maggiormente ha contribuito alla possibilità, per le generazioni successive, di immaginare quel momento storico.
Quello però non è un libro sulla storia, è un libro che fa sentire la sensualità degli eventi. In Guerra e pace c’è molta esperienza fisica. Quando leggo un libro, preferisco avere l’impressione che sia stato scritto da qualcuno che ha avuto esperienza di ciò di cui parla. Ho avuto esperienza dell’Olocausto come bambino, nel periodo che va tra il 1939 e il 1945, quando avevo tra i sette e i tredici anni. Non ho potuto coglierne la globalità; ma la sua sensualità, questa sì. E se anche la mia esperienza dell’Olocausto è limitata, arde in me qualcosa del suo fuoco. Gran parte della mia memoria risiede nel mio corpo: nelle mie gambe, nelle mie braccia, nelle mie orecchie, nei miei occhi, nella sensazione del freddo. Chi ha vissuto l’Olocausto porta in sé un carico di oscurità, di tenebra; ma se ho scritto una quarantina di libri per dire qualcosa di questa esperienza è perché, per quanto terribile possa essere stata, è qualcosa che si può condividere, è qualcosa che le persone possono capire. Hai visto il male, hai visto tutte le forme del male, per questo devi rivolgerti alle persone. Perché le persone dovrebbero avere una nozione di ciò che il male è; dovrebbero averne una qualche comprensione.
Così come dovrebbero avere una nozione del fatto che, di fronte al male, è possibile rimanere umani. Questo non va mai dimenticato, quando si insegna cosa è stato l’Olocausto: si può fare esperienza del male, di un terribile male, ma non identificare se stessi con questo male; non diventare male a propria volta. È molto importante, perché non c’è dubbio che il male può maledirti, può costringerti a seguire il suo passo. Chi ha vissuto l’esperienza dell’Olocausto ha visto così a lungo il male in faccia, ha mandato giù così tanti bicchieri di veleno che ha rischiato di diventare cinico, egocentrico. È un enorme pericolo, che ha costituito l’esperienza di una generazione. Ogni generazione, d’altra parte, incontra l’esperienza che le è propria; ogni generazione viene in qualche modo testata, provata, dalle vicende che le tocca vivere. Io sono stato messo alla prova dall’esperienza dell’Olocausto, ed è per questo che ne posso parlare, che posso dire cosa penso, cosa sento; che posso far sentire, sensualmente, quello che è stato.
A proposito dell’esperienza del male patita nei «campi del totalitarismo, che annichiliscono gli individui ancor prima di annientarli fisicamente», Hannah Arendt, in Le origini del totalitarismo, ha scritto che, «mediante la creazione di condizioni in cui la coscienza non è più sufficiente e far bene diventa assolutamente impossibile, […] si annullava la distinzione fra persecutore e perseguitato, fra carnefice e vittima». Per poi abbracciare l’affermazione fatta da David Rousset, ex deportato politico a Buchenwald, in Les jours de notre mort: «Rousset ha dunque ragione quando sostiene che la verità è che “vittima e carnefice sono ugualmente ignobili; la lezione dei campi è la fraternità dell’abiezione”» (3).
Credo che si debba un grande rispetto alla gente che è uscita dai campi. Alcuni tra coloro che sono passati attraverso quell’esperienza ne sono rimasti rotti, spezzati, ma la questione è: che cosa quell’esperienza ha fatto della loro personalità? che cosa ha lasciato in loro? Che essi siano rotti non significa che abbiano perso la propria umanità. La questione è rimanere umani, anche quando si viene messi alla prova da una simile esperienza: rimanere degli esseri umani. Cenere d’uomini, li chiamò Ben Gurion. Sono cose che non si possono dimenticare. Ma che una persona come Hannah Arendt possa aver fatto una simile affermazione, credo abbia a che fare con le profondità della psiche. La incontrai, quando era a Gerusalemme per il processo Eichmann; faceva parte del movimento sionista e molti dei suoi amici erano emigrati in Israele, ma lei era in dissidio col suo essere ebrea. Si suppone che una persona non psicologicamente disturbata ami i propri genitori, che ami i nonni, le sorelle, i fratelli; che, soprattutto dopo l’Olocausto, ami la propria tribù e la cultura della propria tribù. Dopo l’Olocausto, è diventato necessario guardare con tenerezza e rispetto alle proprie radici ebraiche.
Hannah Arendt veniva da una famiglia ebrea ma, come molti ebrei della sua generazione, desiderava alienare se stessa dalla propria sorgente, perché l’appartenenza ebraica era considerata un anacronismo del quale sbarazzarsi. È stato così anche nella mia famiglia. A differenza dei nonni, che erano religiosi, i miei genitori erano laici, intellettuali, innamorati della cultura tedesca; eravamo una famiglia di ebrei assimilati di lingua tedesca. Mia madre e mio padre erano certi di essere europei, eppure, quando l’Olocausto si abbatté su di noi, gli europei non ci accettarono né in quanto ebrei né in quanto tedeschi.
1. Cit. in Beyrak 1995: 137.
2. Arendt 1996: 620.