di Matteo Robiglio
Abbiamo avuto il dubbio privilegio – come studiosi – di osservare la prima emergenza urbana globale. Miliardi di umani – soprattutto se urbani – hanno sperimentato contemporaneamente condizioni di vita molto simili in contesti del tutto diversi. Per scienze come l’urbanistica, la sociologia, l’economia, la geografia umana, che non possono fare esperimenti, è una straordinaria occasione di osservare città, economie e società in uno “stato limite” indotto. Con una potenza di raccolta di dati, anch’essa senza precedenti, che l’impiego estensivo di strumenti ICT nella gestione dell’emergenza ha ulteriormente incrementato. E con una intatta capacità di osservare e misurare: a differenza di una guerra o di un terremoto, la pandemia non distrugge università e laboratori.
Prescrizione e predizione sembrano fin qui avere prevalso sull’osservazione. Prescrizione di norme, comportamenti, parametri. Predizione di palingenesi per domani: il ritorno ai borghi e la fine della densità urbana, la fine dell’ufficio, la fine del turismo globale, il ritorno alla casa come rifugio, e via profetando. Il movimento delle cose si è già incaricato di mettere in contraddizione prescrizioni e realtà. Le esperienze passate ci dovrebbero aver vaccinato sulla deperibilità delle profezie. Sbaglieremmo però anche a dire che nulla cambia. L’esperimento produce alterazioni forse non totali ma neppure interamente reversibili. Gli umani urbani incorporano l’esperienza riorganizzando adattivamente spazi e relazioni nella forma materiale e immateriale della città.
Vale quindi la pena di osservare alcuni indizi di adattamenti forse significativi. Avendo in mente la città come la definiva Max Weber nel suo Die Stadt (1911-14), come la coincidenza di forma insediativa (la densità), forma politica (l’autogoverno), forma economica (lo scambio mercantile).
Abbiamo assistito prima di tutto ad una riduzione dello spazio politico delle città. Il “secolo delle città” vedeva la città recuperare un ruolo quasi tardomedievale di città-stato, attore autonomo e in competizione con lo Stato nazionale, anche alla scala globale. La pandemia ha visto lo Stato, almeno per ora, riprendere il controllo della città. La polis è azzittita, l’autorità procede dal centro verso la periferia – anche in veicoli in apparenza miti come i nostrani decreti presidenziali. Lo spazio pubblico della piazza e del mercato è stato svuotato d’imperio e nella stessa misura ovunque, come se il territorio dello Stato fosse continuo ed omogeneo. Negando specificità di luoghi, territori, popolazioni, nei quali il rischio si distribuisce in misura e modi non omogenei. Ma anche tradendo le nostre pretese di sapere gestire la complessità.
Siamo tornati ad aver paura della densità. La densità di relazioni che celebravamo come vibrancy, la serendipity dell’imprevisto, la compressione spazio-temporale della modernità sono state sospese. Ma sono anche tornate a farci paura, a farci guardare la densità costruita della città come pericolosa. Un antico sospetto. Quasi fossimo ancora nelle città murate colpite dalla peste o dal colera. Scambiando la forma costruita con la forma dei fenomeni. L’epicentro italiano è stato tra i capannoni nella città-territorio del bergamasco – e non nei grattacieli nella city milanese. I focolai della “seconda ondata” si accendono nei piazzali dei centri della logistica, non nelle piazze dei centri storici. Non aspettiamoci quindi una fuga dalle città. Piuttosto una accelerata riorganizzazione multiscalare dell’abitare urbano con possibili alternanze temporali tra urbano, suburbano e rur-urbano su cicli settimanali o forse mensili anzichè giornalieri. Rafforzando la relazione tra la città e i suoi territori, radicando la città in una ecologia metropolitana estesa e discontinua, a densità variabile.
Se ne intravedono primi segnali nelle azioni “leggere” di modificazione veloce dello spazio pubblico messe in campo subito dopo la riapertura, da Milano come da New York, per riconquistare amenità e respiro allo spazio urbano senza perderne l’intensità. Pedonalizzazioni, dehors e piste ciclabili “temporanei” potrebbero materializzare la fine storica di un secolo di dominio della circolazione veicolare privata sullo spazio pubblico della città. Processo in atto da tempo, che la crisi ha catalizzato e accelerato. Il risultato sarà una diversa densità, più alta – nessun mezzo di trasporto ha più capacità potenziale di una strada pedonale – e insieme più fluida ed amena. Ne risulterà una città più desiderabile e più efficiente, e quindi in prospettiva ancor meglio capace di attirare intelligenza e produrre ricchezza. La cui precondizione sono potenti infrastrutture di trasporto pubblico. Che richiedono e insieme producono più densità, non meno. Che rafforzano gerarchie tra parti di città e parti di territori.
L’emergenza ha già misurato differenze significative di capacità tra infrastrutture urbane più o meno robuste – pensiamo ad esempio alla trasmissione dei dati, o alla riorganizzazione dei servizi sanitari, o alla velocità nello sperimentare nella ripartenza – e accentuato differenze e diseguaglianze sociali di lunga durata, non riconducibili sempre a gradienti tra centro e periferia. I già deboli sono diventati ancora più deboli, i meno connessi sono diventati ancor più distanti. Il patrimonio familiare è tornato a fare la differenza – la dimensione della casa, la riserva economica, la disponibilità di strumenti materiali e immateriali, la capacità di gestire relazioni a distanza.
L’emergenza è un’esperienza collettiva di apprendimento, lavoro e relazioni in forme ibride che mescolano distanza e presenza. Dissolve i tempi e luoghi separati della città industriale, sopravvissuti per inerzia di costruzioni e organizzazioni alla fine dalla produzione fordista. Reintegra nella sfera privata pezzi di tempo e spazio sociale – l’ufficio e la scuola, ad esempio, ma anche il “verde” che dopo la fase acuta, in forma di terrazzo o giardino legato alla casa è diventato l’oggetto più ambito sul mercato immobiliare. Ha liberato opportunità di autonoma determinazione e di nuova conciliazione tra tempo della vita e tempo del lavoro, ad esempio. Ma ha anche tracciato un solco tra produzione materiale e immateriale, che più facilmente può essere smart. Tra protetti e precari, per i quali l’emergenza sanitaria è immediatamente stata economica. Tra smart workers e key workers, che anche nelle fasi più acute hanno dovuto garantire presenza e continuità.
Ha rivelato l’intimità della sfera privata ad occhi pubblici – lo sfondo della mia casa offerto allo sguardo estraneo nella riunione su Zoom. Il lavoratore (intellettuale) si è ritrovato in una solitudine atomizzata che non ricordavamo da quando l’industrie aux champs ha ceduto alla manifattura urbana. In assenza di luoghi condivisi dove si possa almeno in potenza catalizzare un’identità collettiva. Considerazioni simili si possono fare sull’università, la scuola, il teatro, i musei.
Con una drastica semplificazione della sua complessità, lo spazio urbano è ritornato ad essere uno strumento sanitario. Come nella città che non aveva antibiotici e vaccini: non potendo curare o immunizzare bisognava saper separare e distanziare. Il lazzaretto degli infetti, le quarantene degli stranieri, i sanatori di montagna, la villeggiatura dei ricchi durante la pestilenza. Siamo ritornati a usare parole e dispositivi antichi.
L’ospedale-macchina che abbiamo costruito come modello unico di una sanità tecnicalizzata ha mostrato i rischi della concentrazione e della specializzazione. Abbiamo scoperto la necessità di avere linee di difesa più articolate sul territorio – che potrebbero in futuro iniziare in case che incorporino elementari infrastrutture sanitarie come un secolo fa incorporarono l’acqua corrente prima e poi l’energia elettrica e il gas, e proseguire in luoghi di cura a bassa intensità diffusi nei quartieri. Abbiamo saputo attivare spazi di emergenza – non a caso trovati quasi ovunque nei grandi padiglioni inutilizzati delle esposizioni e delle fiere. Dopo il loft, abbiamo così riscoperto un’altro antico etimo sassone, la hall: volumi grandi e generici, liberi da vincoli strutturali, perciò flessibili e disponibili a configurazioni variabili.
Riserve preziose che mettono in discussione l’idea della nostra urbanistica moderna che ogni spazio vada saturato con un uso permanente ed univoco. L’organizzazione della città per aree specializzate monofunzionali che ha attraversato tutto il XXmo secolo ha avuto storicamente inizio proprio con la volontà di salvare la città separando il sano dal malato. La flessibilità offerta nell’emergenza sanitaria da strutture generiche segnala la necessità di articolare lo spazio urbano non più in base a funzioni omogenee semplici e stabili, bensì per aree di prossimità miste, eterogenee, variabili temporalmente e potenzialmente autonome nelle dotazioni di base. Lo sappiamo da tempo, ma forse lo incorporeremo finalmente nei nostri ordinamenti. La Parigi che oggi si vuole riorganizzare in distretti pedonali di “quindici minuti” vuole semplificare la vita quotidiana, ma prepara allo stesso tempo unità facilmente segregabili in future emergenze.
Da qualche anno parliamo con insistenza di resilienza urbana. Alla prova, il pericolo è venuto da dove non ce l’aspettavamo. Non un’alluvione ma un’epidemia. La vera robustezza che abbiamo misurato sotto stress è stata data – oltre che dalla qualità intrinseca dell’infrastruttura urbana di base e dalla disponibilità di risorse spaziali eccedenti, rapidamente convertibili – dalla capacità di gestione del rischio, dalla velocità e appropriatezza della risposta a luoghi, fasce di età, condizioni e dotazioni diverse. Test, treat, trace: la triade dell’emergenza rimanda ad un cambio di approccio alla città, in cui la reazione dinamica e adattiva a stimoli imprevisti prevale sulla organizzazione a priori di un futuro sempre meno prevedibile. Unita alla capacità di auto-disciplina dei cittadini nelle fasi acute del lockdown, e di auto-organizzazione in campi fin qui poco permeabili all’innovazione – come la scuola, il commercio locale, parti della pubblica amministrazione, passati in modalità digitale ben meglio e prima di quanto ci si attendesse – rivela un potenziale di innovazione non gerarchica inatteso. Aiuta la crescente incorporazione nell’infrastruttura urbana di dispositivi diffusi di misura e controllo, e la conseguente disponibilità di dati in tempo reale che l’emergenza ha ulteriormente accelerato – il 5G ha svolto un ruolo centrale nella gestione della fase acuta dell’emergenza a Wuhan, una telecamera di riconoscimento facciale è comparso da qualche giorno all’ingresso della mia palestra. Dispositivi la cui rafforzata pervasività rimanda però anche ad una sempre più urgente questione su come useremo questi dati e come possano essere ingrediente di libertà decentrata anzichè di controllo centralizzato.
Forse proprio la città – come luogo politico, oggi da riconquistare, dove la democrazia resta azione praticabile e la cittadinanza espressione non solo formale – potrebbe essere la risposta antica a questa nuova domanda.
Il perimetro del possibile si è improvvisamente dilatato, a noi di disegnarne le forme.