Georges Bensoussan, “Mitologie e memoria”

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Photo by Peter Herrmann.

Poiché nessun individuo esiste solo per se stesso ma sempre in relazione con l’altro, non esiste una memoria solitaria. La memoria è sempre comune e condivisa. «I ricordi più difficili da rievocare», scriveva Maurice Halbwachs in La Mémoire collective, «sono quelli che riguardano solamente noi stessi, che rappresentano il nostro bene più esclusivo, quasi che i ricordi, per poter sfuggire alla percezione altrui, dovessero sfuggire per primi a noi stessi» (1).

Per questo, nella memoria della deportazione, ciò che è più intimo e doloroso (dunque meno condivisibile) è così fragile. In un articolo pubblicato nel 1919, lo storico Jules Isaac, allora giovane “ex combattente”, metteva in guardia i civili incontrati sugli Champs-Élysées: «Credete di conoscerci, brava gente? Dovrete ricredervi, non ci conoscete affatto, non ci conoscerete mai più. L’abisso che separa i morti dai vivi è tanto profondo quanto quello che ci separa da voi. Siamo segnati da un segno segreto il cui significato vi sfugge. Noi siamo dei fantasmi…» (2).

È quasi un luogo comune ripetere insistentemente che la memoria è ingannevole e che oscilla tra la necessità di sopravvivere e la verità storica; che non obbedisce affatto alla preoccupazione storica, ma si richiama innanzitutto alla preservazione dell’individuo e del gruppo. L’immagine che ricostruiamo del passato non è il passato, nemmeno ciò che di esso rimane, ma solamente una traccia di giorno in giorno mutevole, una ricostruzione che non è il frutto della casualità, ma che collega tra loro schegge di memoria che galleggiano nell’oblio generale.

La memoria, come il pensiero automatico, ha come primo scopo quello di autorassicurarsi. «Quando le ascolto» racconta una giovane sopravvissuta al genocidio del Ruanda (1994), coltivatrice nella regione di Musenyi, «sento che le persone, con il passare del tempo, non si ricordano allo stesso modo del genocidio. Per esempio, una mia conoscente ha raccontato come sua madre fosse morta in chiesa; poi, due anni dopo, ha spiegato come sua madre fosse morta nella palude. Per me non c’è menzogna. La ragazza aveva una buona ragione per volere più che mai, in un primo momento, che la madre fosse morta in chiesa. Probabilmente l’aveva abbandonata nel corso della sua fuga verso la palude, e quel ricordo le procurava disagio. Può darsi che quella prima versione alleviasse una tristezza che le era troppo penosa da sopportare, che la aiutasse a convincersi che sua mamma aveva sofferto meno, uccisa il primo giorno con un solo colpo mortale. Il tempo ha portato un po’ di pace a questa ragazza, che alla fine ha potuto rievocare la verità e l’ha accettata».

L’immagine del sopravvissuto ossessionato dal senso di colpa ritorna in tutti i racconti del genocidio. La giovane ruandese aggiunge: «Ci sono persone che modificano incessantemente i dettagli di una giornata fatale, perché pensano che, quel giorno, la loro vita abbia colto l’opportunità di un’esistenza altrettanto meritevole». Questa memoria smemorata rimane tuttavia una necessità per colui che ha vissuto simili esperienze, per i suoi discendenti e anche per tutti gli altri, muti testimoni di un’umanità ferita dalla negazione stessa dell’umanità. Tanto più che il negazionismo è un elemento costitutivo del genocidio e, anzi, ne costituisce una delle caratteristiche essenziali.

La storia individua le linee di rottura, mentre i contemporanei vedono innanzitutto gli elementi di continuità, le somiglianze e le filiazioni; come la memoria che, per permettere agli individui di sopravvivere, minimizza le rotture. Poiché vivere rappresenta la nostra preoccupazione principale, riteniamo doveroso ignorare le cesure che sono fonte di angoscia. Questa è una delle ragioni della religione compassionevole di oggi, che riconduce la cesura di Auschwitz alla sofferenza conosciuta, inscrivendola in un continuum di dolorismo: persino nella passione del Cristo, con il popolo ebraico assassinato a incarnare il calvario del Salvatore, e le tappe della deportazione a raffigurare la salita al Golgota.

Il rimprovero frequentemente rivolto ai testimoni di non aver saputo percepire in tempo reale la svolta storica appare vano, perché, per definizione, noi siamo incapaci di cogliere le rotture nel momento in cui si producono, mentre lo storico ha come prima funzione quella di vedere soprattutto i cambiamenti. Noi non siamo i contemporanei di noi stessi. Non pensiamo al significato di ciò che viviamo, così come non comprendiamo appieno il pensiero intrinseco alla tecnica che produciamo, mentre ogni tecnica è di per se stessa una visione del mondo.

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1. Halbwachs 1968: 31

2. Rousseau 2003.

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