
Il crocevia delle transizioni
Il lavoro ha perso le parole, quelle di un tempo ci portano fuori strada, serve un nuovo alfabeto. Ha perso un pensiero, quello che sin qui ci ha guidati fatica a descrivere e a dargli un senso.
La grande trasformazione del lavoro è il crocevia delle tre grandi transizioni: digitale, climatico ambientale, demografica.
In trent’anni, per via della denatalità, avremo nove milioni di persone in meno in età da lavoro. De-giovanimento e invecchiamento della popolazione da tempo stanno agendo sul modo di lavorare. E ora si intrecciano con la necessità di ripensare l’organizzazione del lavoro e modelli produttivi per tentare di ricostruire un equilibrio ambientale e climatico. Infine, il digitale è un acceleratore, un abilitatore di tutti i processi già in corso e di quelli nuovi. Il digitale scongela lo spazio (rigidità dei luoghi) e il tempo (rigidità degli orari) del lavoro. Erode le mansioni routinarie e ripetitive e accresce la necessità di un maggiore ingaggio cognitivo. Questi due scongelamenti cambiano il lavoro, la sua natura, le sue forme.
Chi ripensa e riorganizza il lavoro
Senza nuove architetture del lavoro e soprattutto nuovi architetti di esso, questi processi rischiano di farci solo intravedere le nuove opportunità, caricarci di nuovi stress senza restituirci le promesse di miglioramento del nostro benessere.
Un Architetto del lavoro deve saper combinare le nuove geografie del lavoro, gli spazi, gli orari, la domanda di senso e soprattutto i nuovi ingredienti: autonomia, libertà, responsabilità e fiducia. Saper rispondere alla nuova “emergenza” di senso del lavoro, utilizzare le tecnologie, accompagnarle dalle competenze e da nuove strutture organizzative.
Comprendere che le tecnologie non sono il cambiamento ma un abilitatore di esso aiuta a capire cosa sta accadendo.
Un esempio? Se si pensa che lo smartworking sia lo stesso lavoro di prima che grazie alle tecnologie possiamo svolgere da remoto non si comprende la portata di questo cambiamento.
Lo smartworking non è il telelavoro, né il lavoro da casa e neanche il lavoro da remoto.
Lo smartworking è una nuova dimensione del lavoro e dell’impresa. È un lavoro costruito attorno alla libertà, all’autonomia, alla responsabilità e alla fiducia.
Parlare di new ways of working e pensare che sia uno spicchio del lavoro da delegare all’automazione e un altro alla remotizzazione non solo è concettualmente errato ma non ci aiuta ad avere più benessere psicofisico e maggiore produttività. In generale qualsiasi innovazione “a spicchi”, ovvero che interessi solo uno spicchio di persone o solo un’area aziendale generalmente non funziona, talvolta è per lo più dannosa. Il nuovo lavoro è sempre più un progetto, il cui contributo umano (personale e collettivo) viene riconosciuto sugli obiettivi.
Restituire tempo
La grande promessa, in parte tradita, non dal digitale ma dalle modalità con cui vi si approccia è proprio la restituzione del tempo per noi. Il nuovo lavoro nei vecchi spazi, modelli e culture organizzative ha la capacità di esaltare solo i punti deboli del vecchio e del nuovo lavoro.
Se la produttività viene confusa con il numero di pezzi fatti nell’unità di tempo, sarà difficile stare al passo con i mutamenti. Serve un cambio di mentalità nelle imprese e nel lavoro organizzato dentro una sfida positiva per tutti.
Lo scorso anno, a febbraio, il Governo belga ha approvato una legge molto interessante sulle nuove forme di organizzazione del lavoro. Tra esse c’è la rimodulazione dell’’orario settimanale (attualmente di 38 ore) su quattro giorni lavorativi: il datore di lavoro può respingere tale richiesta ma solo a fronte di oggettive motivazioni. Lo stesso è avvenuto, per via contrattuale, in Germania, ma riducendo l’orario nei casi di esigenze personali per attività di cura e di studio.
La riduzione (o la rimodulazione su quattro giorni) degli orari si sta diffondendo in Francia, Germania, Paesi Bassi, Danimarca, Norvegia, Svizzera, UK, Spagna e Portogallo. Alcuni Paesi hanno costruito nuove leggi, altri stanno sperimentando il “4 week day global” all’interno di alcuni gruppi di aziende. Ad eccezione dei piani del Gruppo Intesa e di Lavazza, l’Italia non ha alcun progetto.
In tutti i casi, dove è possibile, si cerca di fare ed estendere il vero smart working. La grande trasformazione del lavoro rende ridicoli e dannosi i tentativi di “contenimento” come avvenuto in Italia con il precedente Governo. Al termine della pandemia, il richiamo generale al “tornate al lavoro” è stata una generalizzazione sgradevole ovunque. In Apple, con parole simi, Tim Cook è riuscito ha provocare una lettera di protesta da parte dei lavoratori (apple too) e la loro organizzazone.
Il parametro tempo sempre più relativo
Più in generale quello che è in crisi è l’assetto spazio-temporale del lavoro. Sullo “spazio” il divorzio tra “attività” e “luogo” di lavoro (anche solo ibrido o parziale) è sempre più diffuso. Sul tempo, la scansione tradizionale degli orari – 8 ore al giorno, 40 ore alla settimana su 5 giorni, 1760 ore annue – è sempre meno rispondente alle evoluzioni organizzative, tecnologiche e delle nuove forme del lavoro. È singolare che a ciò si arrivi non per conquiste sindacali ma grazie alla spinta tecnologica e culturale sulle nuove forme di organizzazione del lavoro.
Il lavoro e la sua contrattualistica sono sempre meno lo scambio tra prestazione e salario. È uno scambio, da anni, sempre più povero che non riconosce il cambiamento di natura del lavoro.
La contrattualistica del lavoro dovrà essere, sempre meno, “scambio” e sempre più condivisione di progetti e valorizzazione di risultati, mettendo al centro il benessere della persona. Per questo gli ingredienti del lavoro sono sempre più autonomia, libertà, responsabilità e fiducia.
In questo contesto, il ruolo preminente del “tempo” come parametro della valorizzazione e remunerazione del lavoro è sempre più in crisi. La “paga oraria” può essere sempre più configurata come parametro minimo ma altrettanto insufficiente per riconoscere in modo pieno il valore economico e professionale del lavoro. Mentre l’orario contrattuale può rimanere ancora utile per definire l’orario massimo, ma è sempre più lontano dall’essere un perimetro entro cui scorre il nastro del lavoro.
Il “controllo” in crisi
Non solo, tutto ciò è un ulteriore colpo di grazia alle strutture gerarchiche, alle organizzazioni basate sul controllo e verticisticamente impostate. Quelle ancora diffusissime sono tenute in piedi da chi nel 2023 ritiene che tutto (gerarchie, culture, struttura organizzativa) possa ruotare attorno al controllo. Coloro che pensano che la produttività sia “un numero di pezzi prodotti nell’unità di tempo” e che una persona se timbra il cartellino e muove le dita su una tastiera sia di per sé “produttiva”. Il controllo se (chissà) poteva avere un senso nelle organizzazioni fordiste, oggi non ne ha nessuna, deprime il benessere delle persone e soffoca la produttività e soprattutto è un’illusione che ha il solo scopo di nutrire il narcisismo del capo.
Quando iniziammo nel 2015 a sostenere i primi accordi sullo smart working qualche collega sindacalista reagì: “Le 8 ore non si toccano”. Io continuo a pensare che la libertà di orario non possa essere solo una prerogativa aziendale. Non aver impugnato la bandiera della libertà di orario rischia di non far raccogliere neanche la sua riduzione. Ma in qualche caso il suo aumento.
Nel nostro Paese c’è sempre un approccio reazionario verso il cambiamento. Come detto sopra, tra trent’anni avremo nove milioni di persone in età da lavoro in meno. I nuovi sistemi di organizzazione del lavoro e le nuove tecnologie consentono guadagni di produttività e riduzione della fatica. Ridurre e rimodulare gli orari è urgente.
Tra un terzo e la metà dell’energia consumata a livello globale è impiegata per la climatizzazione degli immobili. Ridurre i giorni di apertura dei luoghi di lavoro consente di ridurre il consumo energetico (e le emissioni) per la climatizzazione e per la mobilità casa-luogo di lavoro in modo considerevole.
Il “work from anywhere” consente di ridurre e rimodulare gli orari attorno alla persona e diventare smart working ma non in automatico. Se non costruiremo architetture nuove del lavoro, è alto il rischio che si concretizzi l’ibridomania, ovvero il degrado del lavoro ibrido senza orario perché si lavora in continuazione ma si è pagati per otto ore.
Le nuove polarizzazioni
Non solo, ci sarà un distacco crescente di opportunità tra chi avrà autonomia e libertà nell’organizzazione del proprio lavoro e chi, a causa della natura della sua attività, avrà più difficoltà a remotizzare lo svolgimento dei suoi compiti lavorativi. Per questi tipi di lavori, che sono soprattutto il lavoro manuale e il lavoro di cura, sarà decisivo ridurre gli orari e in prospettiva aumentare i salari.
Lo scongelamento delle vecchie rigidità di spazio e tempo di lavoro deve prevedere un orario di cittadinanza, la possibilità di flessibilità vere per volontariato, cultura, formazione. Libertà di andare in montagna il mercoledì e lavorare la domenica. Piu gradi di libertà per più spazio alle passioni e al proprio equilibrio.
Tale processo porta ad eludere la separazione netta tra tempo di lavoro, tempo per se e tempo di riposo. Questi sconfinamenti se non riconfigurati in nuove architetture lasciano le persone in mano all’ “ibridomania”(David Bevilacqua) con gli stress tipici di un lavoro da cui non si stacca mai.
Tutto ciò porta, in particolare le nuove generazioni ma non solo a chiedere nuovi equilibri tra vita e lavoro e ad assegnare ad essi priorità primarie. Le paternali “i giovani non hanno voglia” sono sbagliate e inefficaci. Il senso del lavoro non si eredita, ognuno di noi lo ricostruisce nel suo mondo.
Lo sfrido tra le opportunità intraviste e troppe realtà in retromarcia sono tra le cause delle “grandi dimissioni”, con l’aumento delle dimissioni volontarie e del “quite quitting” e con la tattica opossum per cui, nonostante il lavoro chieda sempre più partecipazione, si fa il minimo indispensabile (ci si finge appunto quasi morti, come l’opossum), la concezione tradizionale del lavoro e soprattutto la sua contrattualistica basata sullo scambio prestazione/salario sono sempre più povere di significato e inadeguate. Il lavoro per obiettivi ha senso se è inserito dentro la condivisione di un progetto da realizzare (che coinvolge anche emotivamente), di crescita personale, di costruzione di valore comune, di solidarietà. Non è una riedizione del cottimo in versione digitale. Servono cura e cultura della condivisione nelle organizzazioni (d’impresa, sociali, statali, etc.).
La settimana corta, tappa intermedia
Per tutte queste ragioni la “settimana corta” è una tappa intermedia, in attesa che la cultura d’impresa e del lavoro comprenda che i nuovi ingredienti del lavoro sono l’autonomia e la libertà, insieme alla responsabilità e alla fiducia e al rispetto. Il lavoro ben fatto insieme agli altri.
Si apre una grande opportunità per svolgere con successo la battaglia per il lavoro dignitoso, quello, come disse Papa Francesco nel 2017 davanti all’Ilva di Cornigliano, che fa «fiorire la persona». E anche di lavorare meno, meglio, tutti.
Questo articolo è parte del progetto SN-DICAP Scienza Nuova. Digital CAPital (PI: Maurizio Ferraris) finanziato dalla Fondazione CRT (Bando erogazioni ordinarie 2019)