di Gianfranco Pellegrino
Chi si ricorda più di Greta Thunberg? Prima del febbraio scorso, e per tutto il 2019, Greta è sembrata l’evento o il personaggio mediatico più rappresentativo e inaspettato. Poi è arrivata la pandemia. Nessuna manifestazione di piazza con persone a distanza ravvicinata è stata più possibile. La stessa Greta si è ammalata, anche se non è chiaro se di Covid-19. Ma la pandemia presenta legami diretti con il cambiamento climatico, sotto almeno tre aspetti.
Secondo molti la zoonosi è resa più facile dall’estendersi delle interazioni fra esseri umani e animali, non solo nei mercatini cinesi, ma anche in generale, in conseguenza della presenza umana sempre più massiccia in nicchie ed ecosistemi fino a poco tempo fa relativamente intatti. Questo è stato confermato da un rapporto del WWF nei primi giorni della pandemia. In Spillover, David Quammen scrive che “là dove si abbattono gli alberi e si uccide la fauna, i germi del posto si trovano a volare in giro come polvere che si alza dalle macerie. Un parassita disturbato nella sua vita quotidiana e sfrattato dal suo ospite abituale ha due possibilità: trovare una nuova casa, un nuovo tipo di casa, o estinguersi”. (D. Quammen, Spillover, Adelphi, Milano, 2020, pp. 43-4)
Ma il lockdown ha, almeno per un po’ e in una certa percentuale, rallentato le emissioni di gas a effetto serra – e questo è il secondo aspetto che collega Covid-19 e cambiamento climatico. Uno studio pubblicato su Nature Climate Change ha calcolato che, rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, le emissioni di gas serra, da gennaio ad aprile, sono diminuite di più di un miliardo di tonnellate e da fine marzo a fine aprile il calo è sempre stato superiore al 15%.
Naturalmente, non è detto che l’effetto si consolidi: il ritorno alle attività normali potrebbe riassorbire la riduzione. Anzi, le strategie per riassorbire le perdite economiche e i costi sociali della pausa forzata potrebbero addirittura fare aumentare le emissioni del 2020, anche considerando che la tendenza delle emissioni è ad aumentare di anno in anno.
Ma c’è un terzo legame fra pandemia e cambiamento climatico. Le diminuzioni più rilevanti registrate nel primo quadrimestre di quest’anno derivano da settori come i trasporti urbani e il trasporto aereo – mentre le emissioni industriali non sono affatto diminuite, anche perché molti settori hanno dovuto continuare a operare. Per quanto possa sembrare strano, non si tratta dei settori più determinanti – secondo dati dell’IPCC, solo il 14% delle emissioni provengono dai trasporti.
Questo può indurre a sostenere tre tesi: 1) alla fin fine, cambiare certi comportamenti è del tutto inutile, perché lievi abbattimenti delle emissioni non sono sufficienti; 2) tutto sommato, comportamenti individuali come quelli presi di mira dalle misure di lockdown sono del tutto inefficaci. Per chiudere le industrie, o per passare a tecnologie alternative, non basta neanche il lockdown. Ci vuole uno sforzo collettivo e istituzionale. Quindi, 3) non ci sono responsabilità e obblighi individuali, ma solo collettivi, per il cambiamento climatico.
Le due prime tesi sono state sostenute da J.S. Foer in Possiamo salvare il mondo prima di cena. Perché il clima siamo noi, Guanda, Milano, 2919.
Dopo aver parlato per 75 pagine, come nota egli stesso, delle cause del cambiamento climatico senza citare il settore secondo lui preponderante, Foer rivela che, se si vuole incidere veramente sull’abbattimento delle emissioni, bisogna concentrarsi sull’allevamento degli animali e quindi adottare una dieta a basso o nullo consumo di carne. Foer mostra come le tre tesi sopra descritte non siano collegate: sostenere che gli sforzi in certi settori siano inutili, o poco utili, non implica affatto affermare che cambiamenti di stili di vita individuali in certi altri siano inefficaci. Anzi: quando si tratta di cambiamenti dello stile di vita, di azioni individuali, forse è proprio concentrarsi sulle leve di maggior potere causale l’unica cosa sensata da fare.
Tutta la prima parte del libro di Foer è un’ottima ricostruzione divulgativa delle cause per cui questioni come il cambiamento climatico impressionano l’intelletto, forse, ma non inducono all’azione, non muovono i sentimenti. E a questa sorta di disallineamento Foer reagisce con le sue armi, cercando storie efficaci sul cambiamento climatico e mettendo le ragioni per agire in un contesto retorico e narrativo più efficace: collega il suicidio individuale al suicidio del genere umano cui ci condurrà il cambiamento climatico se non facciamo nulla; paragona la mobilitazione per il clima – flebile, altalenante, faticosa – con quella che indusse gli americani a fronteggiare le necessità imposte dallo sforzo bellico contro la Germania hitleriana; indica le difficoltà dell’immaginazione umana nel concepire, nel crearsi immagini vivide della fine del pianeta, del deterioramento dell’ambiente, che così diverso è dal bombardamento annunciato dal rombo degli aerei sulla testa; mette in parallelo l’iniziale scetticismo che oltre Oceano accolse le prime timide notizie sui campi di concentramento con l’atteggiamento incredulo nei confronti delle peggiori previsioni sui danni dei futuri cambiamenti climatici.
A un certo punto, Foer ricostruisce con efficacia l’idea che in certi casi solo l’instaurarsi di nuove norme sociali può produrre effetti: solo comportamenti collettivi generalizzati funzionano. Ma per instaurare nuove norme sociali bisogna iniziare nuovi comportamenti e spesso debbono farlo singoli individui, dando l’esempio, spostando comportamenti, ma anche costruendo una struttura, un’architettura che incoraggi a certe azioni. E l’esempio che fa Foer riguarda la vaccinazione contro la poliomelite: per rendere efficace quella campagna non bastarono la scoperta del vaccino, i fondi spesi; servì la vaccinazione pubblica di Elvis Presley, che innescò un’ondata di ‘pionieri della polio’.
Foer è chiarissimo sulla struttura causale di tutto questo: è ovvio che non fu Presley a debellare la polio, ma la scoperta del vaccino e i fondi destinati alla campagna. Ma l’esempio servì a superare il numero necessario di vaccinazioni, a rendere azioni individuali che sarebbero state prive di impatto causale, contributivamente o cumulativamente efficaci. La morale di tutto ciò, per Foer, è che «quando serve un cambiamento radicale, molti sostengono che sia impossibile indurlo attraverso azioni individuali, per cui è inutile provarci. È vero invece l’esatto contrario: l’impotenza dell’azione individuale è la ragione per cui tutti devono provarci. […]» (“Dove comincia la ola?”).
Il parallelo con la situazione degli ultimi mesi è ovvio – anche se noi non abbiamo ancora un vaccino. Per rimanere tutti a casa, per renderci conto del potenziale di contagio che avevano anche quelli di noi che non avevano sintomi, abbiamo dovuto creare nuove norme sociali – e per farlo, in mancanza di un Elvis Presley, abbiamo dovuto pagare due prezzi: farci imporre le norme sociali dal governo, con provvedimenti spesso improvvisi e senza chiaro pedigree democratico, tollerare i sentimenti più biechi di censura e riprovazione morale per i (per la verità pochi) trasgressori. La rabbia popolare contro i runner, spesso innocenti e innocui, in altre parole, è il prezzo pagato per stabilire una nuova norma sociale, senza avere né Elvis né Roosevelt.
E qui il paragone col cambiamento climatico è d’aiuto anche per capire la dinamica e la giustificazione del lockdown. Molti runner hanno sostenuto che le loro corse erano del tutto ininfluenti sulla diffusione del contagio, perché si svolgevano in luoghi solitari e in orari antelucani. Ma dirlo è simile ad affermare: inutile vaccinarsi contro la polio, se non lo fanno tutti, o la maggior parte. Quindi, la mia trasgressione alla regola che impone la vaccinazione, se rimane isolata, è innocua e lecita.
No, dobbiamo tutti fare come se anche la nostra azione individuale avesse peso, perché può averlo, perché proprio perché non può averlo dobbiamo provarci. È chiaro che il sacrificio di molti di noi nel rimanere a casa, o nel continuare a osservare certe precauzioni, è stato del tutto ininfluente. È chiaro che per incidere sul cambiamento climatico ci vorrebbe un’architettura legislativa efficace – e il Trattato di Parigi del 2015 non lo è –, una struttura di incentivi collettivi molto diversa da quella in cui viviamo. Come è chiaro che per sconfiggere il virus ci vorrà il vaccino, e non certo l’isolamento o il distanziamento, che tutt’al più è servito a garantire risorse sanitarie scarse a chi ne aveva più bisogno. Ma se i cambiamenti climatici verranno rallentati e il virus debellato, sarà stato non solo grazie a trattati più incisivi e accordi fra Stati più efficaci e a un vaccino che funzioni, ma anche grazie a comportamenti individuali che consentiranno di stabilire le norme sociali necessarie, che permetteranno di andare oltre la soglia minima di azioni richieste per avere impatto causale. Se il cambiamento climatico sarà mitigato e il virus sconfitto sarà merito, per parafrasare ancora Foer, di nessuno. Di tutti.