di Andrea Baldini
Nel silenzio spettrale di una Siena deserta, un uomo si sporge da una finestra e intona un canto tradizionale. “Nella Piazza del Campo, ci nasce la verbena,” canta il contradaiolo.
Un cane abbia, ricordandoci del contesto ordinario in cui si sta cantando. Poi qualcosa che gli spettatori non si aspettano accade: un coro di cantori invisibili – residenti di quella città medievale chiusi nelle loro case per la quarantena imposta dal governo a livello nazionale – si uniscono alla performance. Le parole vengono modificate. “A noi non fai paura, Corona spazzatura, Covid spazzatura, fai schifo alla città,” enunciano le voci armonizzate. Si tratta di un’esecuzione coinvolgente e toccante al punto da far venir la pelle d’oca solo come la grande arte lo può essere.
Peccato che non si tratti d’arte o, per lo meno, non è arte nel senso in cui di solito la pensiamo, cioè di qualcosa che si trova appeso in un museo o eseguito da professionisti in un teatro o sala da concerto. L’arte “alta” è espressione tipica del genio, o così almeno le teorie moderniste dell’arte ci vogliono far credere. La tradizione modernista guarda agli artisti come a individui speciali dotati di talenti straordinari che trascendono quel che l’immaginazione limitata degl’individui ordinari può concepire. Solo pochissimi possono essere Michelangelo o Leonardo; il resto si dovrebbe accontentare di poter ammirare i loro capolavori.
La pandemia di COVID-19 ha messo in chiaro molte cose: una di queste, a mio avviso, è proprio quella di aver mostrato quanto la teoria modernista dell’arte è non solo limitativa, ma bugiarda. In questo momento, milioni di persone in tutto il mondo stanno trovando significato autentico nell’esprimersi creativamente, passando dalla pittura alla pasticceria.
Non voglio dire che i musei o le sale da concerto non possono avere un ruolo positivo nel promuovere la creatività. Come professore d’estetica, ho costruito la mia carriera professionale a partire dalla mia passione e amore per le arti “alte.” Tuttavia, non è possibile ignorare le limitazioni che affliggono le istituzioni del mondo dell’arte, che in generale è oppressivo, esclusivo e colonialista fino al midollo. Si prenda come esempio il numero esiguo di personali dedicate ad artiste donne nei musei più prestigiosi del mondo. E la mia scelta di menzionare due uomini europei e bianchi come esempi ideali dell’artista non è certo un caso.
Quel che voglio qui segnalare criticamente è in realtà l’attenzione spropositata di cui gode l’arte professionalizzata. Spesso paragono apprezzare quel tipo d’arte col mangiare a un tre stelle Michelin. Un ristorante di quel tipo può senza dubbio farci godere di un’esperienza gastronomica gratificante, ma in fin dei conti non può – e non deve – essere altro che un’occasione speciale. Ciò non è solamente una conseguenza del prezzo: c’è un valore profondo nella semplicità di una ricetta casalinga, un valore che si trova nell’atto di creare, mangiare e condividere quel piatto, e che la ristorazione di lusso non può realizzare. Cenare fuori è un’eccezione e non la regola.
Eppure, nelle arti accade esattamente il contrario. Abbiamo normalizzato il consumo di espressioni creative da 3 stelle Michelin: i musei, le gallerie d’arte e le sale da concerto. Questo sistema non solo limita il nostro contatto giornaliero colla creatività – neppure un fiorentino può visitare gli Uffizi ogni giorno – ma ci insegna anche a essere fondamentalmente spettatori passivi.
La svalutazione delle creazioni quotidiane fa parte di una precisa gerarchia delle diverse forme di creatività, secondo cui le opere che la scienziata cognitiva Margaret Boden definirebbe espressione di “creatività storica” – cioè, quella capacità di creare qualcosa di valore e allo stesso stupefacente che non esisteva prima – sono considerate come le uniche espressioni genuine di creatività.
Quella definizione copre la maggior parte dell’arte “alta.” Esiste tuttavia un altro tipo di creatività: la creatività “psicologica,” cioè quella capacità d’immaginarsi qualcosa che ha valore ed è sorprendente proprio per chi compie l’atto creativo. Questo può essere di qualunque natura: si va dal disegno di un bambino alle canzoni cantate dai contradaioli senesi.
L’isolamento che la pandemia ci ha imposto e di cui ci ha costretto a fare esperienza ci ha mostrato quanto sia importante questo tipo di creatività. Ci riempie di gioia, aprendo allo stesso tempo uno spazio per esprimere e riflettere sulle nostre emozioni e sensazioni. Immaginarsi qualcosa che ha valore per noi, a dispetto della qualità del prodotto, può essere un modo per far guarire la nostra anima. Gli esperti hanno riconosciuto da tempo il valore della creatività psicologica quando si confronta un lutto, e la pandemia è anche questo.
Come prova del valore della creatività psicologica, basta guardare al “Cloud Concert” di Aldo Cicchini, violinista di origine italo-uruguaiana che lavora per l’orchestra della RAI e vive nella Chinatown milanese. Dopo l’inizio della quarantena, ha iniziato a improvvisare dal suo terrazzo dei concerti per i suoi vicini.
Uno di questi spettacoli estemporanei è diventato virale in Cina dopo che la dirimpettaia d’origine cinese ne ha postato un video su Weibo, la piattaforma di micro-blogging più popolare nel paese asiatico. Si tratta di una registrazione casalinga, che nella sua semplicità è lontana dalle atmosfere rarefatte della sala da concerto. A seguito di questa inaspettata popolarità, Cicchini ha aperto un profilo su Weibo dove ha iniziato a caricare video delle sue esecuzioni.
Gli utenti di Weibo non hanno semplicemente apprezzato il video che il violinista ha condiviso: musicisti amatoriali hanno iniziato a modificare il video originale, aggiungendo il loro tocco personale all’esecuzione di Por una Cabeza del compositore Carlos Gardel, realizzando quello che in gergo si chiama un’esecuzione a “matrioska” or taowa. Un utente ha aggiunto la fisarmonica, un altro il violoncello e così via.
È interessante notare che i partecipanti cinesi non mostrano le loro facce durante le esecuzioni. Questo desiderio di evitare ogni forma di notorietà ci suggerisce che il loro contributo è stato motivato da qualcosa di diverso dalla semplice ambizione di essere notati o di farsi pubblicità. Ovviamente, fa parte del gioco, ma la loro decisione di rimanere anonimi mette in primo piano il desiderio di creare insieme, non di diventare famosi.
Si racconta che Pablo Picasso abbia detto: “Mi ci sono voluti quattro anni per dipingere come Raffaello, ma una vita per dipingere come un bambino.” Non è chiaro cosa intendesse Picasso con queste parole, ma un’interpretazione possibile è che esiste qualcosa di veramente straordinario, di miracoloso, nel valore che una bambina o un bambino riescono a trovare nell’essere creativi.
Le parole di Picasso mi sono ritornate alla mente recentemente, guardando alcune foto che mio fratello mi ha inviato e che ritraevano mia nipote di 3 anni, Matilde. Chiusa in casa coi genitori a Leeds a causa della quarantena, se la stava spassando gettando dei coriandoli in aria. La gioia di questa attività assolutamente quotidiana era contagiosa. Non possiamo certamente tutti aspirare a essere come Leonardo, ma possiamo certamente imparare a essere come Matilde.