Post-coronial Studies. Il COVID-19 e l’epistemologia davanti alle teorie del complotto.

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di Gabriele Gava

 

Il diffondersi dell’epidemia di COVID-19 ha visto il parallelo dilagare delle più svariate teorie del complotto. L’accusa che il virus non sia ‘naturale’, ma sia invece il frutto di esperimenti di laboratorio è affermata ad intervalli regolari, per essere poi a sua volta smentita da esponenti della comunità scientifica. Spesso queste teorie arrivano ad un livello di elaborazione tale da renderle scarsamente credibili. Basti citarne due. Secondo la prima, il responsabile dello sviluppo del virus SARS-CoV-2 sarebbe Bill Gates, che avrebbe prodotto il virus in laboratorio allo scopo di lucrare attraverso la vendita del vaccino. Una seconda teoria vede invece nella tecnologia 5G una delle con-cause della velocità di sviluppo dell’epidemia.

Le teorie del complotto costituiscono oggi l’oggetto di un fiorente campo d’indagine interdisciplinare. I problemi che le contraddistinguono generano infatti domande in svariate discipline. Per esempio, ci si chiede cosa caratterizzi la psicologia di un complottista o quali siano i fattori sociali che influiscono sulla creazione di una mentalità facilmente vittima di tali teorie. Esiste inoltre il problema politico che riguarda il modo migliore per gestire e limitare il loro diffondersi.

Tra le domande che sorgono, ce ne sono anche di specificatamente filosofiche. In particolare, mi limiterò qui ad esporre alcuni problemi epistemologici.[1] Ma prima chiariamo di che cosa si parla esattamente quando si usa il termine ‘teoria del complotto’. Questa può essere definita come una spiegazione di alcuni fatti noti che postula la presenza di un complotto tra i fattori determinanti che hanno portato a quei fatti. Generalmente, la spiegazione in questione è diversa dalla versione ufficiale degli eventi.

Soprattutto quando prendiamo in considerazione le più fantasiose tra queste teorie, è inevitabile trattarle come assurde e prive di fondamento. Ma perché le consideriamo come infondate e irrazionali? Una prima risposta potrebbe puntare il dito verso la mancanza di evidenza per ciò che viene asserito o verso l’inaffidabilità delle fonti di informazione citate. Quando però esprimiamo il nostro scetticismo non sembra che il nostro atteggiamento sia dovuto ad un’effettiva analisi dell’evidenza o delle fonti su cui si basa una determinata teoria. Piuttosto, l’etichettare una credenza come una ‘teoria del complotto’ è visto come una ragione sufficiente per non prenderla sul serio, evitando quindi di vagliare le ‘prove’ che porta a suo sostegno. Su che base poggia il nostro scetticismo? E’ un atteggiamento giustificato? In fin dei conti, la storia ha mostrato che i complotti avvengono e che l’opinione pubblica ne rimane all’oscuro per lungo tempo.

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Un tentativo di spiegare e giustificare il nostro scetticismo è stato portato avanti utilizzando gli strumenti dell’epistemologia delle virtù. Quest’ultima si caratterizza per porre al centro delle sue valutazioni l’agire epistemico del soggetto cognitivo, dove questo agire è valutato in termini di ‘virtù’ e ‘vizi’ intellettuali. Partendo da questa prospettiva di analisi, lo scetticismo verso le teorie del complotto sarebbe spiegabile e giustificabile sulla base dei vizi intellettuali che i promotori di tali teorie (chiamiamoli ‘complottisti’) generalmente presentano. I vizi che sono stati attribuiti ai complottisti sono per esempio il pregiudizio, il dogmatismo, la chiusura mentale, e la riluttanza a rigettare le proprie convinzioni in presenza di evidenza contraria. Quassim Cassam ha sostenuto che i complottisti si contraddistinguono poi per associare due altri vizi intellettuali: la creduloneria e il cinismo.[2] Questi sono definiti l’una in opposizione all’altro. Mentre credulone è chi si lascia facilmente ingannare, chi è cinico evidenzia una eccessiva diffidenza verso il prossimo e le informazioni disponibili. In che senso si può quindi essere contemporaneamente cinici e creduloni? La risposta è semplice. Il complottista adotta un atteggiamento pregiudiziale verso le fonti, trattando con cinismo quelle ufficiali e con creduloneria quelle da lui preferite.

Se è plausibile sostenere che alcuni, se non molti, dei complottisti mostrino almeno uno di questi vizi intellettuali, non è però chiaro se questa constatazione sia sufficiente per giustificare un atteggiamento di generale scetticismo verso le teorie del complotto. Per esempio, non è per nulla evidente che le persone comuni che tendenzialmente credono alla versione ufficiale dei fatti non dimostrino anch’essi dei vizi intellettuali simili a quelli attribuiti ai complottisti.[3] Inoltre, anche se effettivamente accertiamo che alcuni complottisti sono criticabili nel loro agire epistemico perché presentano dei vizi intellettuali, non è chiaro se da questo si può concludere che tutti o la maggioranza dei complottisti abbiano delle caratteristiche simili e che quindi l’accettazione di una teoria complottista sia per forza sempre irrazionale.[4] Naturalmente, chi afferma in questo modo che il generale scetticismo verso le teorie del complotto non è giustificato, non lo fa per difendere la loro razionalità e quella di chi le propone. Piuttosto, l’obiettivo è quello di stabilire che una teoria del complotto non può essere screditata semplicemente perché è una teoria del complotto. La sua correttezza e la sua plausibilità devono essere decise partendo da una valutazione dell’evidenza che viene portata a suo sostegno.[5] È chiaro che un approccio del genere impedisce di trattare le teorie del complotto come una categoria omogenea, il che sembra precludere fin dall’inizio ogni tentativo di determinare se e in che misura ci siano dei problemi comuni nel modo in cui queste teorie vengono difese e sostenute.

Questi dibattiti non hanno sicuramente un’ovvia soluzione. Quello che è certo è che l’epidemia di COVID-19 ci sta fornendo nuovo materiale da analizzare.

Gava


[1] Per una raccolta di alcuni dei saggi che hanno iniziato il dibattito su questi problemi si veda: David Coady (a cura di), Conspiracy Theories: The Philosophical Debate, Farnham: Ashgate, 2006. Si veda anche: Matthew Dentith (a cura di), Taking Conspiracy Theories Seriously, Lahnham: Rowman & Littlefield ,2018. Generalmente, si attribuisce a Karl Popper il merito di aver per primo parlato di teorie del complotto o cospirazioniste. Si veda: Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici, vol. 2, Roma: Armando, 1974.

[2] Quassim Cassam, “Vice Epistemology”, The Monist 99: 159-180, 2016. In un contributo più recente, Cassam ha rivisto la sua posizione, sostenendo che il punto di vista più corretto per valutare le teorie del complotto è politico e non epistemologico. Si veda: Quassim Cassam, Conspiracy Theories, Cambridge: Polity, 2019.

[3] Keith Harris, “What’s Epistemically Wrong with Conspiracy Theorising?”, Royal Institute of Philosophy Supplement 84: 235-257, 2018. Dopo aver sollevato quest’obiezione contro chi ha finora difeso un atteggiamento generalmente scettico verso le teorie del complotto, Harris propone però un approccio diverso per arrivare allo stesso risultato.

[4] Matthew Dentith, “The Problem of Conspiracism”, Argumenta 3: 327-343, 2018. Si veda anche:  Matthew Dentith, The Philosophy of Conspiracy Theories, Basingstoke: Palgrave Macmillan 2014.

[5] Questo è l’atteggiamento che è generalmente attribuito ai ’particolaristi’, ovvero a coloro che sostengono che le teorie del complotto vadano valutate caso per caso. Per la distinzione tra ‘generalisti’ e particolaristi’ si veda: Joel Buenting e Jason Taylor, “Conspiracy Theories and Fortuitous Data”, Philosophy of the Social Sciences 40: 567–78, 2010.

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