di Carola Barbero
Quando si è immersi nelle cose, difficilmente si riesce a vederle e a capirle per quello che sono. In questi giorni di emergenza covid-19 siamo stati tutti “invitati” a stare a casa per evitare i contagi. Ci hanno consigliato di metterci al sicuro chiudendoci la porta e il mondo alle spalle e di mantenere una distanza di sicurezza da tutto ciò che fino a qualche mese fa affollava, letteralmente, le nostre esistenze. Ci è stata offerta la possibilità di riscoprire, con le parole di John Ruskin in Sesamo e gigli (1865), «la vera natura della casa: il luogo della pace; il rifugio, non soltanto da ogni torto, ma anche da ogni paura, dubbio e discordia». Il nostro rifugio è quello in cui ci sentiamo protetti, in cui lavoriamo da remoto, seguiamo i figli nelle attività scolastiche, partecipiamo (via webex, zoom, meet) a riunioni, studiamo, leggiamo, svolgiamo esercizi fisici, mangiamo e dormiamo, in attesa del rapporto della Protezione Civile delle 18, dei discorsi del Presidente della Repubblica e del Consiglio, del Papa, delle testimonianze e delle opinioni dei vari virologi, medici, infermieri, dei sommersi e dei salvati.
In un primo momento, quando dall’oggi al domani ci siamo ritrovati a casa con il fiato corto, gli occhi stanchi, le giornate stravolte e una strana, quasi colpevole, sensazione addosso, di essere in salvo nonostante la pandemia che si stava scatenando là fuori, abbiamo avuto come l’impressione di avere la possibilità di poter guardare finalmente il mondo dalla giusta distanza – per riprendere il titolo di un bel film di Carlo Mazzacurati. La “regola della giusta distanza” è quella che vuole che si valutino le situazioni senza lasciarsi travolgere dalle emozioni, facendo tre passi indietro. Sì, perché per vedere quello che si ha sotto il proprio naso, bisogna allontanarsi, così come secondo Pierre-Auguste Renoir era importante fare per riuscire ad apprezzare un quadro senza farsi semplicemente ipnotizzare dai colpi di colore sulla tela.
E che cosa abbiamo visto grazie ai tre passi indietro? L’assurdità di quel nostro mondo di prima, che negava sempre tutto: le distanze, in primis – ci spostavamo in continuazione, da una parte all’altra del mondo, per lavoro, per divertimento o per noia, quasi terrorizzati all’idea di stare fermi –, poi il tempo – che doveva essere sempre riempito –, le paure – chi le aveva era considerato un menomato –, i silenzi, i vuoti. Abbiamo capito che non basta credere di avere negato qualcosa perché questo non esista più. E per scoprirlo non abbiamo dovuto fare chissà che, ci è bastato stare a casa. Come recitano gli Aforismi di Zürau (1946) di Franz Kafka, non occorre «che tu esca di casa. Rimani al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare neppure, aspetta soltanto. Non aspettare neppure, resta in perfetto silenzio e solitudine. Il mondo ti si offrirà per essere smascherato, non ne può fare a meno, estasiato si torcerà davanti a te».
Smascherando il mondo, abbiamo ritrovato tante cose. Non solo, banalmente, il tempo per leggere, cucinare, ridere con i nostri cari (se li abbiamo in casa, ovviamente), guardare fuori dalla finestra o sentire il profumo dei fiori sul balcone, ma anche il tempo per pensare a ciò che siamo adesso e che cos’è questa vita che ci ritroviamo davanti. Prima, per parafrasare Marcello Marchesi in Sette zie (1977), la strada per arrivare a casa non finiva mai, e guardavamo da sotto quali stanze avessero la luce accesa, domandandoci al contempo se avessimo davvero voglia di tornare. Ci ponevamo la questione, almeno, prima di rientrare. Adesso non avrebbe senso (non possiamo nemmeno uscire, figuriamoci rientrare).
Si dirà: ovviamente in questi giorni abbiamo difficoltà a guardare la nostra vita dalla giusta distanza, cosa vuoi vedere in quei 100 metri quadri che condividi con bambini, compagno/a e animali domestici? Ma forse non è nemmeno corretto ridurre tutta la questione a un problema di metri quadri. Ve lo ricordate Jack Torrance (il protagonista di Shining di Stephen King del 1977) che si era trovato a vivere con sua moglie e suo figlio addirittura in un grandissimo hotel vuoto, l’Overlook Hotel, con vista mozzafiato sulle montagne del Colorado? Non possiamo certo dire che lui e i suoi famigliari avessero problemi di spazio. Eppure anche lui a un certo punto, in isolamento e senza riuscire a lavorare al suo romanzo, aveva cominciato a dare segni evidenti di cedimento, e la scena in cui con occhi rotanti e ghigno si scaglia su sua moglie con una mazza da roque la dice lunga su quanto la clausura possa mettere in difficoltà le persone. Ma, ancora, si dirà, in questo caso si trattava di un individuo con evidenti fragilità psichiche già ben prima che l’isolamento avesse inizio. Va bene.
Ma noi siamo tanto sicuri di non perdere il senno a forza di vivere da reclusi nel nobile tentativo di mettere in salvo penne e piume, nostre e altrui? Se stiamo sempre in casa ci manca l’aria, se usciamo sul balcone o guardiamo fuori assistiamo a concerti improvvisati di persone insospettabili, sessioni di cyclette di signore in bikini, bambini in canottiera impegnati ad incastrarsi la testa nella ringhiera, persone con mascherina e guanti che spargono candeggina come se fosse acqua santa. Riusciremo a mantenere anche solo la parvenza di qualcosa come un equilibrio mentale?
E soprattutto, che cosa possiamo fare? Ecco alcuni scenari possibili.
- Resistere, resistere, resistere a denti stretti, sudati come Sigourney Weaver in Alien (1979), forti della certezza che, come recita la tagline del film, tanto «nello spazio nessuno può sentirti urlare».
- Farci coraggio, bere un bicchiere di Marsala (o Vermouth o altro, a seconda dei gusti) anche prima dell’orario tradizionalmente consentito, come faceva Emilio Salgari – un altro che pur avendo creato eroi dello spessore di Sandokan e Yanez a un certo punto non ce l’ha più fatta ad avere difficoltà sul lavoro e a condividere l’appartamento con moglie, figli, suocera e animali domestici e ha pensato bene di andare a fare harakiri in un bosco alle porte di Torino. Nel nostro caso sarebbe più saggio rinunciare a fare harakiri e limitarsi a qualche passeggiata nel bosco (appena ci sarà permesso).
- Cercare di individuare, seguendo la regola della giusta distanza, il significato di ciò che facciamo e diciamo in questa nostre esistenze in cui ci siamo trovati improvvisamente rinchiusi. Che cosa vogliamo dire con quello che diciamo e con quello che facciamo? Ve la ricordate la coppia d’oro? No, non Sandra Mondaini e Raimondo Vianello, che pur stando sempre in casa a litigare e ad annoiarsi alla fine forse si volevano bene. No, intendo Winnie e Willie, i protagonisti di Happy Days di Samuel Beckett (1962): lei sepolta nella terra fino alla vita (nel primo atto, nel secondo è sepolta fino al collo) che passa il tempo rovistando tra gli oggetti della sua borsa (tra i quali c’è una rivoltella che le piace accarezzare), curando il proprio aspetto (si pettina, si trucca), canticchiando e chiacchierando, mentre suo marito Willie ha il cranio sfondato, parla pochissimo ed esce (strisciando) dal buco in cui si trova solo per leggere il giornale e masturbarsi. Eppure Winnie all’inizio, sorridendo e guardando lo zenit, dice «un altro giorno divino», e anche noi, se non potessimo osservare la scena dal di fuori ma fossimo, come lei, impantanati in quella situazione e impossibilitati a muoverci, penseremmo di avere a che fare con una condizione tutto sommato normale e non con l’inferno in una delle sue più riuscite rappresentazioni. Ecco allora che quei famosi tre passi indietro sono fondamentali per vedere i segni evidenti della catastrofe e non restare lì, come Winnie, ad armeggiare con spazzola e specchio nell’attesa di salutare il giorno felice appena trascorso.
- Fare la fine di Garcin, Estelle e Inès di Huis Clos di Jean-Paul Sartre (1944) che dopo aver ferocemente sospettato gli uni degli altri pensano bene di mettere, à la Baudelaire, a nudo il loro cuore e i loro peccati e quando scoprono che la porta che credevano chiusa dall’esterno in realtà era sempre stata aperta, decidono comunque di stare dentro, perché «l’enfer, c’est les autres».
- Aspettare pazientemente la fine delle misure restrittive e poi, prima di prendere qualsiasi decisione drastica e definitiva, trovare, come nel racconto The Office di Alice Munro (1968), una stanza tutta per sé, à la Virginia Woolf, in cui rifugiarsi in solitudine per un po’. Non necessariamente per scrivere o lavorare, ma magari anche soltanto per pensare su quanto è successo in questi mesi cercando di acquisire, nei confronti della nostra stessa vita, quella giusta distanza che ci consenta di vedere, oltre le pennellate e le sfumature di colore, il senso d’insieme. Ovviamente a patto che ci sia.
Bel post
Passa nel mio blog se ti va 😉
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