
di Davide Dal Sasso
Anziché la pericolosità e la natura del virus, temi affrontati con competenza dagli scienziati, vorrei considerare alcuni aspetti legati anche alla sua presenza. Del primo stiamo incominciando a sapere qualcosa, sui secondi – in particolare, i nostri entusiasmi e le possibilità di uno sguardo diverso sulla vita quotidiana – possiamo provare a formulare alcune riflessioni. Per farlo, insieme alla filosofia saranno riferimento altrettanto prezioso anche le arti. Poeticamente, e con più immediatezza di quanto non sembri, queste ultime possono infatti mostrare l’effettività dell’umano, pregi e difetti di ciò che siamo.
I
“Cambia rotta / Cambia stile / Scopri l’anno bisestile / È volgare il tuo annaspare, sai / Squarciafavole t’illudi / Come notte fra le nubi”. Questo, però, non è l’unonovenovesei come invece recita il testo tratto dalla canzone omonima del gruppo indie rock Afterhours. Siamo nel 2020, al terzo mese della pandemia dovuta alla diffusione su scala globale del virus SARS-CoV-2. Una crisi pandemica che permette di riflettere sul rapporto uomo e natura, sulla relazione tra il virus e il suo ambiente. In una prospettiva ecologica essa sta mostrando con nettezza come, diversamente da quello che troppo spesso si pensa, la natura non sia assolutamente assoggettabile ai voleri e alle decisioni degli esseri umani. Neppure nel caso in cui si volesse insistere sulla comprensibile necessità di agire il prima possibile anche per fronteggiare gli effetti che, allo stesso tempo, si stanno manifestando sul versante dell’economia mondiale. La crisi pandemica in corso impone dunque di ‘cambiare rotta’, trovare nuove direzioni, riconoscere possibilità e risorse nonostante le difficoltà che sta imponendo. Tutto questo, d’accordo con un principio tanto elementare quanto inestimabile: immersi nel flusso della vita, siamo chiamati ad affrontare quello che accade. Benché non sempre siamo pronti a farlo, e spesso trascuriamo quanto essa valga, è agendo che continuiamo ad andare avanti, a vivere. L’immobilità, l’abbandono e qualsivoglia forma di ritrosia possono anche palesarsi. Esse però non sono gli unici approdi. Semmai è decisivo guardare bene all’orizzonte per scorgere alternative rese possibili proprio dall’attività, dalla operosità umana, dallo stesso dinamismo vitale che è continuo invito ad agire.
Oggetti di indagine degli scienziati e delle loro ricerche, ad essere considerati in quanto segue non saranno né il virus e la sua natura né gli aspetti della malattia. Il rischio sarebbe, infatti, di trattarli come oggetti di valutazione narrativa. Nonostante ne sappiamo poco e stiamo continuando a scoprirlo di giorno in giorno, la nostra riflessione sul virus certamente non può, per esempio, assumere le forme di quella che proponeva Herman Melville nel suo racconto sui copisti dedicato a uno scrivano, il più strano che si sia mai visto: Bartleby, del quale non vi sarebbe alcuna biografia utile a ritrarlo. Il virus non è un oggetto di finzione, è reale e naturale. E come tale richiede altre riflessioni. Ma appunto, quelle che proponiamo riguardano altri aspetti. In particolare, due che contraddistinguono le nostre vite: gli entusiasmi e il valore dell’ordinario, della vita quotidiana. Se come osservava il matematico e naturalista francese Georges-Louis Leclerc conte di Buffon, ‘lo stile è l’uomo’, il primo cambia in stretta relazione al secondo. Sia perché lo stile è considerabile come la traccia dell’umano che contraddistingue la sua operosità sia perché se anche volessimo abbozzare una riflessione su di esso pensando solo di parlare di arte, finiremmo comunque col riconoscere aspetti che appartengono prima di tutto alla vita e all’effettività dell’umano. Ed è proprio a questi che sono interessato senza comunque trascurare aspetti delle arti sui quali mi soffermerò in seguito.

II
‘Cambiar stile’, in questo momento può voler dire molte cose. In pochi mesi le vite delle persone, in tutto il mondo, sono profondamente cambiate. L’interruzione di viaggi, attività sociali e commerciali, l’attivazione di lunghi periodi di quarantena necessari a rallentare il contagio sono entrati rapidamente a far parte delle nostre quotidianità. Le relazioni umane e i modi di interagire con il mondo esterno si stanno trasformando. E questo sta accadendo mostrando anche capacità di adattamento inaspettate. Immersi nelle attività di tutti i giorni trasfigurate dalla pandemia in corso, siamo diventati più consapevoli di quanto siano importanti la relazionalità umana, l’incontro e il contatto con le altre persone. Per parlarsi e vedersi sono stati usati strumenti che hanno reso possibili nuovi stili di vita e garantito lo svolgimento di numerose attività a distanza. Servirsi del web, delle tecnologie digitali ha infatti permesso di riconoscere esigenze e necessità altrimenti celate dai ritmi quotidiani della vita prima della pandemia. Si noti che questo non significa tanto e solo trovare lati positivi attraverso l’esperienza di eventi negativi, quanto piuttosto agire scegliendo quello che già c’è ammettendo che oltre alle mancanze e ai limiti possono benissimo esserci anche risorse e possibilità. Purché, però, si sia capaci di individuarle riconoscendone il potenziale ancora tutto da scoprire.
Piazze, strade, stazioni, aeroporti, mezzi e luoghi pubblici nel mondo si sono gradualmente svuotati. Allo stesso tempo, gli ambienti urbani hanno mostrato il loro ‘volto naturale’. Le acque dei canali di Venezia tornano tanto trasparenti da vedere in esse anche pesci e meduse. Le forme di vita urbane si rinnovano. Gambe a penzoloni sporgono da finestre che guardano sulle strade deserte in un sabato pomeriggio in città. Al telefono, qualcuno lavora su un balcone mentre dalla finestra del palazzo di fronte si sente suonare musica classica. In un piccolissimo terrazzino giovani genitori stanno organizzando gli spazi al meglio per i giochi dei loro piccoli figli. Per strada, durante brevi passeggiate nel raggio di duecento metri dalla propria abitazione, si fa esperienza dei profumi e del silenzio. Non ci sono automobili, chi lo necessita cammina. Cammina e cammina.
Dalle città ai quartieri ai palazzi agli appartamenti parrebbe manifestarsi una continua attività reattiva: se le cose van così, non posso che agire in questo modo. E gli entusiasmi, che animano le nostre attività, sembrano naturalmente appassire con inesorabile rapidità.
A ben vedere, però, quello slancio personale, quella forza ispiratrice vista fin dall’antichità come una appassionata motivazione e riconosciuta persino come furore, che anima le nostre attività vitali non sembra essere necessariamente annichilita. Si dirà che, in fondo, non può che esser così poiché stiamo parlando di un elemento del tutto soggettivo, l’entusiasmo, la cui variabilità non può che dipendere da come è fatto ciascun essere umano. Certo. Ma considerando l’attuale momento sembrerebbe che quelle inclinazioni alla conservazione e alla resistenza che contraddistinguono anche l’animale umano si siano palesate fin da subito in modi diversi mostrando proprio un continuo permanere degli entusiasmi. Dalla scelta di segnalare che le cose possono sempre migliorare e non solo peggiorare (basti pensare ai numerosi cartelli con la scritta ‘andrà tutto bene’) all’esponenziale aumento di telefonate, messaggi, videochiamate e alla condivisione di meme, vignette, video e immagini di carattere ironico e dilettevole: è piuttosto difficile sostenere che gli entusiasmi si siano persi.
Ma di quali entusiasmi stiamo parlando? Probabilmente, anzitutto, di quelli per la vita umana nella sua essenza primigenia: ossia per la possibilità di incontrare altre persone, di ridere e piangere insieme, di abbracciare e baciare chi si ama, di svolgere attività e condividere momenti, di agire e muoversi liberamente dove si vuole. Allo stesso tempo, stiamo riconoscendo che gli entusiasmi non solo sono soggettivi ma anche soggetti a continua variabilità proprio per la natura stessa del flusso della vita. Quella forza che anima e investe l’agire umano, che per esempio la lezione platonica ci mostrava quale tratto caratteristico delle attività del poeta, è naturalmente legata al ritmo – ora stabile, ora instabile – della vita. L’entusiasmo anima le nostre attività pur non potendo esserci sempre. Tuttavia, nella situazione attuale, le vite durante la pandemia non sembrano essere caratterizzate dalla sua perdita ma dal suo riposizionamento: non solo motore per la gioia ma anche per un rinnovato sguardo verso l’ordinario, verso la vita quotidiana. Un approccio che mostra anche quanto esso sia profondamente legato a due tratti caratteristici dell’umano: l’egoismo e la ricerca della felicità. D’accordo con Aristotele, nel primo caso possiamo anche sbarazzarci di una accezione negativa ammettendo pure che è egoista colui che ha amore per sé stesso cercando il bene, ossia colui che è virtuoso. Nel secondo caso, la felicità andrebbe considerata in stretta relazione alla attività intellettuale poiché una vita felice è svolta secondo l’esercizio attivo del pensiero[1].
Dunque, mosso da una forza che lo spinge ad agire a fin di bene, l’entusiasta può anche essere felice sia perché virtuosamente egoista sia perché esercita la attività intellettuale per raggiungere i suoi obiettivi animato da uno slancio ispiratore che può però anche svanire da un momento all’altro. Considerandolo alla luce della variabilità, è allora possibile riconoscere che l’entusiasmo possa anche essere alimentato non solo – come si vorrebbe, pensando proprio alle dinamiche poetiche e artistiche – dalla disposizione allo straordinario, dal furore che motiverebbe la conquista dell’irraggiungibile, ma al contrario anche dal riconoscimento e apprezzamento dell’ordinario. Vale a dire, dalla possibilità di difendere virtuosamente l’amor proprio, e dunque anche quello verso gli altri, ponendo al centro della attività intellettuale la vita quotidiana. L’elementarità del vivere con le sue sofferenze e imprecisioni, le sue difficoltà e possibilità. Vale a dire, l’accettazione della stessa impossibilità che l’entusiasmo, in quanto legato alla variabilità della vita, possa essere permanente e duraturo. Al contrario, il suo palesarsi avviene nel segno della sua naturale discontinuità. Non siamo sempre entusiasti.

III
Questo però non vuol dire che non possiamo esserlo mai. Soprattutto, se ci lasciamo ancora stupire da quello che c’è intorno a noi, dalla vita nel suo scorrere. Se ammettiamo la possibilità di fare scoperte lasciando che gli entusiasmi si ripresentino, proprio perché vivere vuol dire anche questo.
Possibilità che appaiono con ancor più nettezza in questo momento e che animano anche le pratiche artistiche contemporanee. Guardarsi intorno e riconoscere quel che c’è, apprezzare qualcosa che forse non abbiamo sufficientemente guardato con attenzione, dargli un valore e alimentare nuovi entusiasmi sono risorse che le artiste e gli artisti coltivano in modi diversi. Con le loro ricerche, soprattutto dalla seconda metà del Novecento, hanno mostrato esattamente il potenziale di queste possibilità: riconsiderare l’ordinario, fare arte con l’essenziale muovendo da entusiasmi per la vita e i suoi aspetti quotidiani. Sia per quelli appariscenti sia per altri apparentemente meno interessanti. Anche in ragione di possibili dubbi che possono sorgere.
Dubitare, oltre che essere entusiasti, ha una sua ragionevolezza. Lo aveva mostrato con finezza il filosofo Stanley Cavell osservando che in tal modo si favorisce il rinnovamento delle possibilità conoscitive. Il dubbio può sorgere nel momento in cui si ammette di non riuscire a procedere con una scoperta, ossia che è necessario cambiare strada. E questo implica anche di riconoscere la finitezza e i limiti delle proprie possibilità conoscitive. Queste possono riguardare tanto le nostre esperienze quotidiane, per esempio il nostro rapporto con l’ordinario, quanto quelle con altri esseri umani. In questo secondo caso, la conoscenza è ancor più decisiva poiché all’origine del riconoscimento, ossia della possibilità di riconoscere l’umanità altrui ammettendo anche i limiti della propria[2].
Se da una parte la pandemia con le sue conseguenze ci mette in condizione di ripensare le nostre relazioni e i modi di interazione, dall’altra sta mettendo alla prova le nostre esistenze. Il timore del contagio, le rapide trasformazioni della quotidianità, le quarantene e l’isolamento imposto influiscono certamente sulla salute e la vita delle persone. Il loro impatto non può essere trascurato. Tuttavia, l’umano si palesa tanto nelle sue carenze quanto nelle sue azioni. Come ha osservato il filosofo Maurizio Ferraris, nel primo caso possiamo riconoscere la necessità di avere supporti e strumenti che gli consentano di fare fronte alla vita[3]. Nel secondo, la stessa tecnologia di cui può disporre è indice della condizione naturale che caratterizza l’umanità essendo legata anzitutto alle attività pratiche[4].
Troppo spesso considerata in termini di intrattenimento, non si è valutato che l’arte – che è essenzialmente pratica, operosità umana – è anche possibilità di coltivare il riconoscimento. «Essere umani è aspirare ad essere umani. Poiché non è aspirare ad essere gli unici umani, si tratta altrettanto di un’aspirazione a vantaggio degli altri. Quindi potremmo dire che essere umani è aspirare ad essere visti come umani.»[5] In questo senso, la riflessione sugli entusiasmi e il valore dell’ordinario può essere arricchita ancor più fruttuosamente.

IV
L’attenzione per l’ordinario è legata anche a quella ragionevolezza propria dell’arte che, per esempio, aveva riconosciuto il critico Gillo Dorfles ammettendo che essa non possa essere ricondotta solo al fantastico e all’irrazionale ma anche alle dimensioni organizzativa e conoscitiva[6]. Basti pensare, infatti, che proprio nel trattato che teorizza la concezione moderna delle arti come insieme circoscritto di pratiche umane volte a favorire l’imitazione della natura e il diletto attraverso l’elaborazione di rassomiglianze, il filosofo Charles Batteux menziona l’entusiasmo. Lo descrive individuando due tratti: «una viva rappresentazione dell’oggetto nello spirito e un’emozione del cuore proporzionata a questo oggetto.»[7] Aggiungendo inoltre un dettaglio prezioso ai fini della nostra riflessione: «[c]osì come ci sono degli oggetti semplici, nobili, sublimi, ci sono anche entusiasmi che corrispondono loro»[8]. Batteux che difendeva la tesi per cui in arte non si inventa nulla, perché il modello lo offre la natura, ammetteva dunque che l’entusiasmo si possa manifestare anche in relazione a ciò che abbiamo già nel mondo. E, possiamo aggiungere, a ciò che ci riguarda in quanto esseri umani.
Con le loro opere, le artiste e gli artisti sono in grado di mostrarci aspetti dell’umano che naturalmente ci appartengono, aspetti delle nostre esperienze vitali che ci consentono di affrontare da altre prospettive anche i temi esaminati fin qui. L’arte insieme al pensiero, scriveva il filosofo Bertrand Russell, non possono essere valutati solo in rapporto ai comportamenti, ossia alla possibilità di intervenire nel flusso degli eventi della vita rendendo possibile il movimento della materia[9]. Tuttavia, proprio le opere in quanto tracce materiali delle pratiche artistiche non possono essere trascurate. Esse sono i frutti della sensibilità e delle necessità espressive di ciascun artista e permettono di vedere le cose in modo diverso da come siamo abituati. Questo perché ci invitano ad assumere una posizione insolita, a guardare la realtà da altri punti di vista. Ne vorrei considerare in particolare tre.
Le ansie, la tristezza e le preoccupazioni che fanno parte delle nostre vite, e che a causa della pandemia possono essere diventate fenomeni ancor più pervasivi, sono stati oggetti dell’attività artistica in circostanze diverse. I’m too sad to tell you (1971), opera dell’artista Bas Jan Ader esprime il suo dolore mostrandolo mentre piange per pochi minuti davanti a una videocamera che lo riprende. Una registrazione video che rende visibile la tristezza nella purezza della sua dimensione umana, quella del pianto. Con la sua opera Tous les demains sont des hiers (2020, in corso) l’artista Margaux Bricler cerca di trovare una forma visiva per timori e preoccupazioni nate con la pandemia, traducendo i suoi sogni in immagini attraverso l’uso del video. Un’opera composta da più capitoli, ciascuno ritrae un sogno diverso, che mostra lati oscuri e ancestrali della vita onirica. Sogni, spesso laceranti, che rivelano tanto la sua poetica romantica ed estrema quanto il tentativo di affrontare le paure e l’instabilità che possono presentarsi nella vita. Sfidando le restrizioni imposte dallo spazio e dal tempo durante il periodo di quarantena, con la performance DOOU (2020) l’artista Nico Vascellari si è misurato con le resistenze umane, rispondendo alla domanda ‘Do you trust me?’ Durata ventiquattro ore e trasmessa in diretta su YouTube l’ultimo giorno di lockdown, la performance è stata realizzata nel suo studio dall’artista che ripeteva la frase ‘I trusted you’ muovendosi al ritmo della musica emessa da due altoparlanti. Un’azione che permette di riflettere tanto sulla resistenza fisica e mentale quanto sul significato stesso della fiducia. Aspetti che ancora una volta ci riguardano da vicino.
Affrontare la tristezza, cercare un senso per i sogni, testare le resistenze umane per scoprire risorse e limiti dell’affidabilità. Sono aspetti messi in luce da artiste e artisti con le loro opere. Aspetti che potrebbero sfuggirci o persino apparire irrilevanti. Soprattutto, trascurando le possibilità che la vita offre nonostante i momenti avversi. Alimentare nuovi entusiasmi potrebbe anche esser possibile riconoscendo proprio il valore dell’ordinario. Ammettendo che quello che già abbiamo, al netto di qualsiasi straordinarismo, vale ben più di quanto non siamo disposti a credere.
Di nuovo, non si tratta di trovare lati positivi in ciò che difficilmente può offrirne. Il tema qui non è un approccio eudemonistico alla vita. Piuttosto, si tratta di esercitare il nostro stupore coltivando l’umanità anche nel mezzo delle difficoltà che la vita presenta. In questo senso, è possibile trarre insegnamento anche dalle arti che, in modi più o meno tradizionali, ci invitano a far tesoro delle relazioni con gli altri e delle esperienze con l’ordinario ridandogli valore. Senza perder l’entusiasmo.
[1] Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, introduzione, traduzione, note e apparati di C. Mazzarelli, Milano: Rusconi, 1993; in particolare: sull’amore per sé stessi, libro IX, 8, pp. 355-359; sulla felicità, libro X, 7, pp. 393-395.
[2] Cfr. Cavell, S. (1979), The Claim of Reason: Wittgenstein, Skepticism, Morality and Tragedy, Oxford: Oxford University Press; trad. it. di B. Agnese, La riscoperta dell’ordinario La filosofia, lo scetticismo, il tragico, con una postfazione di D. Sparti, Roma: Carocci, 2001.
[3] Per approfondire si veda Ferraris, M. (2016), L’imbecillità è una cosa seria, Bologna: il Mulino.
[4] Cfr. Ferraris, M. (2017), Postverità e altri enigmi, Bologna: il Mulino.
[5] Cavell [1979] 2001, p. 387.
[6] Cfr. Dorfles, G. (1990), Mito e ragione in L’estetica del mito Da Vico a Wittgenstein, Milano: Mursia, pp. 142-156.
[7] Batteux, C. (1746), Les Beaux Arts réduits à un même principe, Paris: Durand; ed. it. a cura di E. Migliorini, Le Belle Arti ricondotte ad unico principio, Bologna: il Mulino, 1983, p. 53.
[8] Ibidem.
[9] Cfr. Russell, B. (1928), Sceptical Essays, New York: Routledge; trad. it. di S. Grignone, Saggi scettici, Milano: Tascabili degli editori associati, pp. 86-95.