di Valeria Martino
Quando il presidente o un governatore di uno Stato dichiara che un terremoto o un grande incendio sono un “disastro”, sicuramente, si potrebbe dire, i fatti bruti riguardanti il terremoto o l’incendio sono sufficienti per qualificarli come disastri in virtù delle loro caratteristiche fisiche. Non c’è niente di convenzionale riguardo all’essere un terremoto o una strage. Ma se si guarda più da vicino a questi casi, si vede che anch’essi illustrano il punto in questione. La funzione di un disastro dichiarato è che le vittime locali si qualificano per cose come l’aiuto finanziario e prestiti a basso interesse, laddove gli incidenti e i terremoti di per sé non generano denaro in virtù delle loro brute caratteristiche fisiche e delle loro conseguenze.
(J. R. Searle, La costruzione della realtà sociale, tr. it. Einaudi, Torino 1996, pp. 60-1)
Se è vero e indiscutibile che il virus è naturale e noi siamo il suo ambiente, sembra altrettanto vero che le pandemie, invece, di naturale abbiano poco o niente. Lungi da me il tentativo di negare l’esistenza del virus o il potenziale distruttivo di un sistema sanitario al collasso. Resta il fatto, però, che dichiarare la pandemia o l’emergenza è un atto sociale, che rientra a pieno titolo nelle analisi proposte dall’ontologia sociale in merito.
La riflessione di Searle in apertura sul rapporto tra fatti bruti e fatti istituzionali ci chiama a riflettere sul fatto che molte categorie che, per abitudine, attribuiamo alla natura hanno invece una componente umana e istituzionale molto forte. Il caso specifico, legato alla attuale situazione, è naturalmente la dichiarazione dello stato di pandemia da parte dell’OMS che ha fatto molto discutere ormai circa due mesi fa, in momenti che ci sembrano già lontani. Le discussioni, come spesso accade, sono dipese anche dal fraintendimento dei termini, della posta in gioco e, più generalmente parlando, di questo atto, che a pieno titolo, si costituisce come un atto linguistico à la Austin. Sebbene senza virus non avrebbe senso dichiarare lo stato di pandemia, pure il fatto di averlo dichiarato introduce un elemento di novità, prettamente sociale, rappresentato dalla costituzione di un nuovo specifico fatto istituzionale.
Al di là delle implicazioni politiche e dei malpensanti che vedono nella dichiarazione prolungata e ad altissima voce del disastro, per esempio da parte dell’Italia, una occasione per ottenere agevolazioni di vario tipo, ciò che in queste poche battute interessa sottolineare è proprio questa capacità umana di costruire porzioni di realtà – salvo poi diventarne in qualche modo dipendenti: non si può con altrettanta facilità dichiarare la fine della pandemia, se determinate condizioni del tutto indipendenti da noi, come esseri umani, non si verificano. Per quanto grandi possano sembrare i nostri poteri, la realtà – naturale, ma anche sociale, una volta che sia stata costruita e abbia ottenuto vita proprio – ci resiste, come ha più volte sottolineato Maurizio Ferraris, attraverso le linee guida del suo Nuovo Realismo.
Torna così in mente quello che, attraverso una sorta di indovinello, la sociologa Margaret Archer definisce il “tratto irritante della società”, ovvero l’ambivalenza che proviamo nei suoi confronti: la consapevolezza che le sue regole dipendono da noi e, al contempo, la sensazione che cambiare tali regole sia impossibile.
Con le parole di Archer: Qual è quella cosa che dipende dalla intenzionalità degli uomini ma che non si uniforma mai alle loro intenzioni? […] Qual è quella cosa che dipende dall’azione ma che non corrisponde mai completamente alle azioni, nemmeno a quelle dei più potenti?
(M. S. Archer, La morfogenesi della società. Una teoria sociale realista, tr. it. Franco Angeli, Milano 2007, p. 189).
Probabilmente, la consapevolezza che alcune dichiarazioni a cui assistiamo quotidianamente siano interpretabili in questa luce comporta poco o niente per la nostra situazione attuale e futura o per le nostre possibilità d’azione. Tuttavia, riflettere sui processi di costruzione della realtà sociale e sulle possibilità teoriche dell’ontologia sociale in questa direzione possono offrirci un buon passatempo quando, ancora limitati nei nostri spostamenti, ci chiediamo come occuperemo il tempo che ci separa dal domani.
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