Post-coronial Studies. Controluce. La socialità umana ai tempi del Covid-19

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di Francesco Camboni

 

Possiamo ormai ragionevolmente affermare che l’attuale pandemia sta tracciando uno spartiacque che contrassegna, già oggi, il nostro orientamento temporale tra un “prima” e un “poi”. Pertanto, dal momento che, come ogni epoca (dal greco ἐποχή, “epochè”: sospensione, fermata) degna della sua etimologia, anche il tempo del Covid-19 si allunga su una “sospensione” dell’ordine e delle categorie con cui eravamo abituati a pensare la realtà, il compito sociale dei filosofi è, ancora una volta, di contribuire a interpretarne le novità aggiornando il proprio strumentario concettuale. Ritengo fruttuosa, in questa direzione, l’idea di avvalersi della condizione pandemica come di un potente riflettore che ci consente di studiare la socialità umana in controluce.

In altre parole, la mia proposta è di esplorare l’animale umano considerando l’emergenza pandemica come un laboratorio antropologico e sociale letteralmente straordinario. Del resto, si tratta di un’assunzione rintracciabile in alcuni illustri filosofi e scienziati sociali che hanno elaborato teorie della natura umana in base alle testimonianze di situazioni storiche particolarmente drammatiche. Per esempio, le concezioni di solidarietà articolate da Richard Rorty e Kristen Monroe traggono spunto dalle imprese dei soccorritori degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale, che dal 1962 in poi sono stati identificati e insigniti da Yad Vashem dell’onorificenza dei “giusti tra le nazioni” (“Righteous Among the Nations”).

Sulla base di questa premessa metodologica, in questo articolo vorrei soffermarmi su due aspetti della socialità umana evidenziati dalla pandemia.

La prima considerazione è di carattere più generale, ed è che la condizione pandemica fornisce importanti indicazioni a conferma della naturale socievolezza umana. Considerare l’uomo, seguendo Aristotele, come “zóon politikón” (ζῷον πολιτικόν), ovvero come animale intrinsecamente incline alla socialità può sembrare un’ovvia assunzione, ma la storia della filosofia annovera illustri rappresentanti di una concezione opposta della natura umana. Hobbes, per esempio, ha esplicitamente rifiutato l’antropologia aristotelica, suggerendo che allo stato di natura gli uomini non siano affatto socievoli e cooperativi, bensì ostili e competitivi verso i propri simili; tale concezione, che ci restituisce un’immagine piuttosto pessimistica e sconfortante dell’umano, viene compendiata da Hobbes nella formula “homo homini lupus”, ripresa dall’Asinaria di Plauto. Con una punta di ironia, il primatologo olandese Frans De Waal ha recentemente osservato che il motto plautino utilizzato da Hobbes non include soltanto uno, ma almeno due errori di carattere scientifico. Infatti, non solo tale proverbio non rende giustizia ai canidi, che sono tra le specie più gregarie e cooperative del pianeta, ma ancor più gravemente esso distorce la natura sociale della specie umana. De Waal, che sostiene apertamente la visione aristotelica della socialità umana, riporta una massiccia base di evidenze sia evolutive, sia comportamentali a suo sostegno, su cui non è mia intenzione dilungarmi in questo intervento. Al contrario, è qui della massima importanza un’osservazione di De Waal, ovvero che “a titolo di illustrazione della natura profondamente sociale della nostra specie, basti pensare che, subito dopo la pena di morte, la punizione massima che possiamo concepire è la cella di isolamento”[1].

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Il carattere “innaturale” della condizione di isolamento e distanziamento sociale  ̶  che al momento è l’unica, amarissima medicina somministrataci per contenere efficacemente la diffusione del contagio  ̶  non è soltanto evidente al senso comune e alla nostra esperienza quotidiana, ma trova solide conferme in diverse aree di ricerca scientifica. Nicholas Christakis, medico e sociologo all’Università di Yale, ha dichiarato a Science che, sebbene gli effetti a breve termine del distanziamento sociale sulla salute fisica e mentale umana non siano ancora stati debitamente studiati, è già possibile asserire che “la diffusione del coronavirus in tutto il mondo ci obbliga a reprimere il nostro bisogno di relazione, un impulso profondamente umano radicato nell’evoluzione: vedere gli amici, aggregarsi in gruppi, stare l’uno vicino all’altro”[2]. Inoltre, aggiunge Christakis, il distanziamento sociale sta già mettendo alla prova la capacità umana di cooperare: “le pandemie sono una prova particolarmente esigente […] perché non stiamo provando a proteggere soltanto le persone che conosciamo, ma anche persone che non conosciamo o perfino quelle di cui, forse, neanche ci importa”. Pertanto, la pandemia non solo conferma, in controluce, il carattere innato della nostra socialità, ma pone sul cammino della civiltà umana nuove sfide alla pratica di tale inclinazione.

La seconda considerazione che vorrei proporre è che, con ogni probabilità, la nostra socialità dovrà dotarsi di nuovi modi, strumenti e formule per il suo esercizio. Infatti, la socialità umana dovrà fare i conti con uno scenario ambientale e sociale che impone gravi e durature restrizioni alle modalità in cui siamo più propensi a praticarla. Si è già estesamente diffusa, per esempio, una temporanea sospensione di alcune consuetudini sociali, dalle strette di mano al bacio sulla guancia. Probabilmente, nuove forme “anti-contagio” di saluto prenderanno il posto di quelle in uso da generazioni  ̶  come, ad esempio, il saluto con il gomito che si sono scambiati, in un’immagine destinata a diventare iconica, i candidati democratici americani Joe Biden e Bernie Sanders. È inoltre presumibile che forme di contatto umano non tattile, come il contatto visivo, assumeranno una crescente centralità per il nostro repertorio espressivo e comunicativo, come sta già accadendo con le decine di videochiamate che facciamo tutti i giorni, per gli scopi più diversi. Tuttavia, raccogliendo il suggerimento di Christakis, è ancor più interessante avanzare alcune ipotesi su come l’isolamento e il distanziamento sociale metteranno alla prova una figura specifica della socialità umana, ovvero la solidarietà.

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Con un po’ di enfasi, ma senza eccessiva approssimazione, si potrebbe affermare che la solidarietà stia accumulando un credito simbolico e politico senza precedenti nella sfera pubblica.
“Now is the time for solidarity”, ha perentoriamente dichiarato Bernie Sanders, formulando uno slogan di cui si sono serviti numerosi altri leader mondiali e rappresentanti delle istituzioni europee (Ursula von der Leyen). L’enunciato “ora è il tempo della solidarietà” è a ben vedere ambiguo: non solo, infatti, è possibile intenderlo in senso normativo, come un appello a sacrifici, condivisione e mutuo supporto (“è tempo di dimostrare solidarietà”), ma ne è anche possibile una lettura descrittiva (“la solidarietà è già là fuori, osservate”), che è quella su cui vorrei soffermarmi. Possiamo trovare tracce di una crescente centralità della solidarietà non soltanto nelle sue apparizioni in veste istituzionale  ̶  dai discorsi dei leader a reti unificate ai progetti di sperimentazione clinica disposti dall’OMS che ne prendono il nome  ̶ , ma anche nel suo dispiegamento al livello informale del Terzo Settore, delle iniziative di auto-organizzazione spontanea, delle campagne di raccolta fondi per sostenere la ricerca e gli ospedali più congestionati.

Credo che tutte queste operazioni cooperative siano sufficientemente omogenee da poter essere considerate come forme di solidarietà: stipulandone una definizione piuttosto elementare, la solidarietà può essere definita come comportamento prosociale (ovvero, comportamento diretto a beneficio di altri) verso soggetti di cui riconosciamo una situazione di avversità od oppressione. Questa definizione è sufficientemente ampia da includere i casi menzionati in precedenza, ma può escluderne altri, come la cooperazione strumentale basata esclusivamente sulla reciproca convenienza; per esempio, non sono in solidarietà col mio vicino se gli presto la mia falciatrice solo perché in cambio riparerà gratuitamente il mio portatile; analogamente, non sono in solidarietà con una persona soltanto se ne condivido pubblicamente un’opinione controversa.

La domanda che vorrei porre è se, prendendo per buona questa definizione, assisteremo a nuove forme di solidarietà nella socialità a distanza imposta dal tempo di Covid-19. La solidarietà infatti si innesta, per dir così, sul tronco della socialità umana, e ha già percorso diverse fasi ed evoluzioni; per esempio, Jürgen Habermas ha proposto di descrivere la storia della solidarietà in termini di una progressiva dilatazione del suo ambito di irradiazione, procedendo da una solidarietà dinastica o locale a una solidarietà nazionale e, nel suo stadio più astratto e assottigliato, addirittura trans-nazionale o cosmopolitica. La solidarietà, pertanto, non implica di per sé la conoscenza interpersonale ma può, anzi, presentarsi come solidarietà tra estranei; è altrettanto vero, e ancor più rilevante, che la solidarietà non implica un contatto fisico, ma può praticarsi a distanza. E se la “solidarietà digitale”, per richiamare l’intrigante formula del Ministero per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione, fosse la prossima evoluzione della solidarietà, in risposta al Covid-19?


[1] F. De Waal, Primati e filosofi. Evoluzione e moralità, Garzanti, Milano 2008, p. 25.

[2] La traduzione italiana delle dichiarazioni di Christakis è tratta da l’Internazionale.

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