di Tiziano Toracca
A causa della diffusione del contagio da Covid-19 siamo stati spinti e costretti a forme di distanziamento sociale e di autoisolamento che non avevamo mai sperimentato prima. Le strategie di contenimento del virus progressivamente adottate dalla maggior parte dei governi (al netto di varianti e differenze anche notevoli: basterebbe pensare all’atteggiamento iniziale tenuto da Inghilterra o Svezia o a quanto sta avvenendo in Ungheria) si sono concretizzate in un’esperienza che per la sua radicalità, la sua estensione globale e il suo carattere coatto appare senz’altro inedita. Inediti e drammatici sono il numero dei morti e dei contagiati, la mancanza di posti letti in terapia intensiva, la decisione di privilegiare, se necessario, i pazienti più giovani, l’impossibilità di celebrare i riti funebri e assistere i propri cari nel momento del ricovero, l’inattività di molte imprese e di milioni di lavoratori, l’impatto del virus e delle stesse strategie di contenimento sui soggetti più vulnerabili (malati, anziani, poveri, migranti, famiglie con figli piccoli), i pericoli derivanti dalla prossimità e tutto il corredo di gesti e atti quotidiani necessari a prevenirli. Altrettando inedito è lo sforzo di capire o immaginare in tempo reale in che modo vivremo una volta superata la fase emergenziale e quale “normalità” ci attende.
Alla luce di questa situazione, penso tuttavia che non si debba tralasciare il fatto che l’attuale scenario è stata prefigurato da alcuni eventi analoghi, benché più circoscritti, avvenuti negli ultimi due decenni (quello più evidente è l’epidemia da Sars-CoV occorsa tra il 2002 e il 2004) e che all’origine della pandemia da Covid-19 e delle precedenti epidemie, a prestar fede a molti scienziati, ci sono lo sconvolgimento e la distruzione degli ecosistemi causati dall’azione dell’uomo. Bisogna anzitutto ammettere, in altre parole, che se la nostra è un’esperienza inedita e drammatica è però anche propria del nostro tempo perché mette a nudo la pervasività raggiunta dal nostro dominio di specie. Ciò che la pandemia rivela, oltre alla nostra paura di morire e alla difficoltà di affrontarla razionalmente – senza cioè rimuoverla prendendo per immaginario un pericolo reale, al contrario di Don Chisciotte, o all’opposto senza lasciarsi sopraffare dal panico e dall’angoscia andando in cerca di untori, come è accaduto all’inizio coi cinesi, o di capi carismatici – è la necessità di adattarsi a vivere in un’epoca in cui è in gioco e in pericolo la sopravvivenza della specie umana (non del pianeta, il quale è al contrario irritabile e vivo). La nostra è insomma un’esperienza inedita che però ci è stata in vario modo preannunciata e che in forme diverse, ma analoghe, caratterizza da tempo la vita dell’uomo in alcune zone del pianeta. Imprimere una svolta alla storia della distruzione in cui siamo immersi è estremamente difficile – è una storia di lunga durata, globale, che coinvolge un’enormità di processi e interessi di natura economica, sociale e culturale – e tuttavia è bene ribadire che il nostro procedere (l’idea di un magnifico progresso) sconta sempre di più un’analogia spettrale con la parabola dei ciechi dipinta da Pieter Bruegel il Vecchio. Da questo punto di vista non mi pare causale, né assurdo, che molti interventi sulle cause e gli effetti della pandemia abbiano interpretato l’emergenza alla luce delle disuguaglianze e degli squilibri economici planetari e alle forme di dominio alle quali sono soggetti interi popoli e intere regioni. La globalizzazione dei processi economici, sociali e culturali ha accentuato il divario tra il “vero” e il “certo” rendendo il mondo umano meno partecipabile e accessibile agli individui e tuttavia lo sforzo di svelare e denunciare i rapporti di potere e la loro capacità distruttiva e lo sforzo di immaginare una società diversa non sono venuti meno.
La conseguenza più manifesta e immediata della pandemia è stato l’improvviso e “orrido” stravolgimento che ha subito la nostra vita quotidiana e in particolare il suo moderno epicentro simbolico vale a dire il lavoro. I gesti più elementari e i riti sociali sono stati completamente trasfigurati (tanto che il continuum meccanico proprio della quotidianità sembra essersi rovesciato in una successione drammatica di choc) ma l’esperienza che più ha risentito dell’emergenza è indubbiamente il lavoro. Fin dal principio della pandemia e con sempre maggiore insistenza, infatti, il bisogno di tutelare la salute e di scongiurare il rischio del contagio si sono tragicamente contrapposti al bisogno di tutelare il lavoro e di scongiurare il rischio di un’imminente recessione, di un’ondata di povertà e di un neofeudalesimo. Le misure di contenimento degli effetti del virus sono state immediatamente accompagnate da misure di contenimento degli effetti derivanti dall’interruzione forzata del lavoro (al netto della loro efficacia: tutta da valutare) e l’eventualità di un passaggio da una “fase uno” a una “fase due” sconta precisamente la necessità di superare questa contrapposizione e di trovare e gestire, caso per caso, forme di compromesso tra le due opposte esigenze. Il mutamento provocato dalla pandemia non si esaurisce tuttavia nell’interruzione del lavoro e la crisi del lavoro che esso lascia emergere non equivale soltanto a una mancata produzione di ricchezza. Anzitutto, l’emergenza non ha bloccato l’intero mondo del lavoro: se anche si esclude la sacca dei lavoratori sommersi, giocoforza penalizzati dall’emergenza, milioni di persone hanno continuato a lavorare in forme tradizionali, benché costrette ad adottare dispositivi di prevenzione e protezione (ad esempio medici, infermieri, farmacisti, oppure addetti al commercio di beni alimentari e di prima necessità), e altrettante persone hanno continuato a prestare la propria attività lavorativa, benché in forme più o meno inedite in rapporto ai tempi, gli spazi e gli strumenti di lavoro (ad esempio i docenti e più in generale gli addetti alla pubblica amministrazione, nonché molte categorie di impiegati e imprenditori). Per queste categorie di lavoratori il contraccolpo della pandemia è stato, al contrario di una sospensione, un incremento della propria attività o comunque una sua complessificazione in termini materiali e psicologici. Ma al di là del problema dell’interruzione del lavoro, per l’appunto relativa, il mutamento provocato dalla pandemia porta a mio avviso in primo piano due aspetti del lavoro, l’uno relativo al suo significato, l’altro a un’eventuale trasformazione della sua organizzazione. Il primo, quasi completamente taciuto in quelle analisi che schiacciano il lavoro sul mercato del lavoro cioè sulla sua natura economica, è l’importanza della sua dimensione simbolica: l’idea, cioè, che il lavoro rappresenti un’esperienza qualitativamente diversa da uno scambio economico e più in generale da un’attività di produzione di beni o servizi. Il non-lavoro forzato di questi mesi (e più in generale, e a prescindere dalla pandemia, la disoccupazione sistemica) non equivalgono soltanto a una mancata produzione o a un mancato acquisto di ricchezza: significano anche la sospensione del principale apparato con cui gli individui si identificano reciprocamente, si raccontano, agiscono all’interno della collettività e riconoscono il mondo come proprio. Le persone oggi costrette a un’inattività forzata non hanno soltanto problemi economici (i quali potrebbero essere attenuati attraverso una redistribuzione della ricchezza, tassando cioè ad hoc, in misura proporzionale, e per un periodo di tempo limitato, non solo i patrimoni ma anche i redditi), ma sperimentano anche la difficoltà di dare un significato sociale alla propria esistenza e di riconoscersi come appartenenti a una comunità. Le misure restrittive imposte dall’emergenza mostrano che il valore prodotto dal lavoro moderno non è meramente economico e che l’enormità che segna la crisi del lavoro nelle società borghesi dipende dal nesso tra il lavoro e la possibilità che gli individui abbiano un’identità sociale, partecipino alla vita e ai rituali collettivi e si fabbrichino, in qualche modo, un proprio mondo.
Il secondo aspetto che la pandemia evidenzia è la potenziale e massiccia estensione di una trasformazione dell’organizzazione del lavoro già in atto da alcuni anni, ma che le misure di contenimento hanno reso improvvisamente necessaria. Le persone che grazie all’uso di piattaforme digitali e tecnologie informatiche possono continuare a lavorare da remoto, cioè da casa, scambiandosi documenti, vedendosi e interagendo virtualmente, sperimentano un diverso rapporto con gli spazi e i tempi di lavoro e vivono una sovrapposizione totale tra la vita professionale e pubblica da un lato e quella personale e privata dall’altro. Sperimentano insomma un’organizzazione del lavoro resa possibile dalle innovazioni tecnologiche e imposta dalla pandemia. La questione riguarda dunque gli effetti di questa nuova organizzazione del lavoro e il futuro di una simile trasformazione una volta estesa a larghi settori. Ora, se il problema dell’inuguaglianza nell’accesso alle tecnologie (sia essa dettata da questioni materiali o dal divario digitale generazionale) è, almeno in teoria, facilmente risolvibile, altrettanto superabile mi pare l’obiezione più comune e più sensata rivolta a questa nuova organizzazione del lavoro. L’idea che la sovrapposizione tra tempo del lavoro e tempo della vita inauguri l’età del “lavoro senza fine” sul presupposto dell’indistinzione tra lavoro e vita è infatti valida fin tanto che questa nuova trasformazione (ora accelerata) sarà interamente delegata, sullo stile del cottimo, ai lavoratori e ai datori di lavori. Fin tanto cioè che resterà indisciplinata, rimessa a rapporti di forze squilibrati e in sostanza sottomessa agli ideali dell’impresa neoliberista. Non è detto però che questa nuova organizzazione del lavoro, se compresa e disciplinata e se affrontata collettivamente, sfoci in forme di servitù coatte o in forme pervasive di controllo. D’altro canto, se si escludono quelle prestazioni in cui la dimensione della socialità, dell’incontro e del contatto reale appaiono indispensabili, com’è il caso della trasmissione dei saperi (cioè del mondo della scuola, a tutti i livelli, e dell’università), i vantaggi di poter svolgere alcune prestazioni o di erogare alcuni servizi a distanza appaiono innegabili, a cominciare dal ripensamento radicale della mobilità locale e internazionale che essa comporterebbe. In realtà, da questo punto di vista appare semmai più preoccupante, perché già massicciamente in atto, la trasformazione di alcune nostre attività non remunerate (perché non lavorative in senso stretto) ma estremamente “riconoscenti” (e perciò capaci di mobilitarci e spingerci ad agire) in attività produttive di ricchezza altrui, stante l’uso e il commercio di dati e informazioni deliberatamente e gratuitamente offerti ai giganti del web attraverso simili attività. In modo forse paradossale, la più insidiosa sovrapposizione tra il lavoro e la vita avviene quando riconosciamo le nostre attività in tutto e per tutto come personali e private, quando cioè crediamo davvero di non lavorare. Una tale sovrapposizione non è insomma dovuta alla nuova organizzazione del lavoro a distanza (che pure deve essere disciplinata) ma alle attività che svolgiamo durante la nostra vita privata e personale, a prescindere da dove e come lavoriamo. Il paradosso è sottile: generando profitti altrui, non essendo remunerate ed essendo riconoscenti (permettendo cioè agli individui di essere riconoscibili socialmente), queste attività sembrano sorreggersi proprio sull’apparato simbolico che caratterizza, tradizionalmente, il lavoro. Sono attività escluse dalla sfera del lavoro perché non remunerate, ma ricadono in quella sfera non solo perché producono profitto ma anche perché imitano la funzione che fa del lavoro l’epicentro simbolico della nostra vita associata.