Post-coronial Studies. Dal micro al macro e ritorno. La pandemia fra virus emergenti e complessità

di Erica Onnis

Nei primi mesi del 2020 si è assistito alla rapida diffusione del Coronavirus SARS-CoV-2, originatasi nella capitale della provincia cinese dello Hubei, Wuhan, e in grado di raggiungere, in poche settimane, 171 paesi (New York Times, 31 marzo 2020).  

Wuhan, capitale della provincia cinese dello Hubei e focolaio dell’epidemia. © Erica Onnis

La rapida diffusione del contagio, il numero di casi, le misure adottate dai governi e le pesanti ripercussioni sull’economia e sulla vita privata degli individui hanno scatenato una naturale attenzione nei confronti del virus, di cui ci si sforza di comprendere l’origine, la natura e le caratteristiche epidemiologiche affidandosi agli scienziati e ai tanti divulgatori scientifici che in  queste settimane cercano di rendere comprensibile al pubblico generale (così come agli specialisti di altri settori) un fenomeno complesso come quello dell’emergenza e della diffusione di un’epidemia virale. 

Sembra che per capire cosa stia succedendo in questi mesi (e cosa accadrà nei prossimi) sia quindi necessario capire cosa sia il SARS-CoV-2, che caratteristiche abbia e, soprattutto, da dove arrivi. Dopo una digressione che mira a rispondere brevemente a queste domande, vorrei porre tuttavia un’altra questione: per comprendere il senso più generale di questa macroscopica pandemia, è davvero sufficiente una conoscenza esaustiva del suo protagonista microscopico? La risposta è chiaramente negativa. Come vedremo, perché si verifichi una pandemia sono necessari due fattori: da un lato, un virus con caratteristiche particolari, dall’altro, un ecosistema idoneo alla sua diffusione, e se relativamente al primo siamo piuttosto inermi poiché l’evoluzione naturale non obbedisce al volere umano, esiste una chiara responsabilità collettiva relativamente al secondo.

Ma iniziamo dal micro.

Il SARS-CoV-2 è il settimo Coronavirus a conoscenza degli scienziati in grado di infettare gli esseri umani, accanto, fra gli altri, a quelli responsabili della SARS e della MERS, due malattie infettive di cui negli anni duemila sono stati registrati, rispettivamente, 8000 e 2500 casi circa. 

I Coronavirus sono virus zoonotici, capaci, cioè, di “saltare” da un ospite non-umano a un ospite umano, secondo un processo definito spillover (su questo si consiglia il libro di David Quammen, Spillover. L’evoluzione delle pandemie. Leggi anche un’intervista all’autore). Il virus responsabile dell’attuale pandemia, perciò, ha con ogni probabilità compiuto un salto interspecifico da un vettore non-umano (probabilmente un chirottero) a uno umano, per poi adattarsi al nuovo ospite e diffondersi all’interno della nostra popolazione.

Una caratteristica del SARS-CoV-2 che può sembrare ovvia, ma che è invece essenziale all’analisi del fenomeno, è quella di essere un virus nuovo, ossia appena sviluppatosi nella sua forma attuale e con cui, di conseguenza, il genere umano non aveva mai avuto a che fare. L’OMS, non a caso, definisce il virus “nuovo coronavirus” e uno studio pubblicato il 17 marzo sulla rivista Nature qualifica il Covid-19, ossia la sindrome causata dal Coronavirus, come “nuova polmonite”. Più in generale, tuttavia, per riferirsi a questo carattere di novità esiste in virologia una categoria di malattie definite Emerging Infectious Diseases (EID), ossia malattie infettive emergenti. Ma cosa significa, con precisione, il termine “emergente”? 

In virologia, l’espressione “emergente” si riferisce a una serie di circostanze ambientali e socio-economiche che caratterizzano lo sviluppo e la diffusione di alcuni virus. Si parla di virus emergenti quando essi compaiono in nuove aree geografiche o quando infettano nuove popolazioni, animali e umane. Il concetto è inoltre sfruttato quando un virus compie un salto interspecifico, e nel farlo acquisisce nuove proprietà biologiche che lo rendono, di fatto, un nuovo virus, diverso da tutti gli altri. Questo è il caso del SARS-CoV-2 umano, imparentato con i corrispondenti Coronavirus dei pipistrelli e dei pangolini, ma geneticamente distinto da essi; tuttavia, è anche il caso della stragrande maggioranza dei patogeni scoperti a partire dagli anni Ottanta, e questo è un fatto che deve far riflettere sulle modalità in cui, negli ultimi quarant’anni, si sono configurati i rapporti fra essere umano, società e ambiente.

Come riporta un altro studio pubblicato su Nature nel 2015, il 65% dei patogeni che colpiscono gli esseri umani scoperti a partire dal 1980 sono virus zoonotici.  Esempi classici, oltre alle già citate SARS e MERS, sono i virus responsabili dell’AIDS, trasmessi all’uomo da alcuni primati africani, e l’Ebola, trasmessa presumibilmente all’uomo e ad altri primati dai pipistrelli della frutta. 

Come detto sopra, tuttavia, perché si produca una pandemia sono necessari più fattori: da un lato, c’è una contingenza evoluzionistica, ossia la comparsa di un virus dotato di un’elevata plasticità genomica; dall’altro, qualcosa che invece ci riguarda molto da vicino, e cioè un’ecologia favorevole alla sua diffusione. 

La diffusione di virus ad alta plasticità genetica dai loro vettori non-umani all’uomo, la trasmissione intraspecifica e la diffusione globale. Immagine adattata per l’italiano e tratta da Kreuder Johnson et al., 2015.

 Le zoonosi con potenzialità pandemiche sono quindi generate da virus altamente plastici che possono adattarsi con facilità a più ospiti e possono saltare di specie in specie fino a infettare l’uomo, proprio come i Coronavirus. Oltre a ciò, tuttavia, la trasmissione intraspecifica da uomo a uomo e la diffusione su scala globale del virus vengono favorite dalla natura delle nostre società complesse e iperconnesse, che sembrano presentare molte caratteristiche in grado di renderle ecosistemi favorevoli alla diffusione del virus. Ne elencherò tre: 

1. Densità demografica urbana. Circa il 55% della popolazione mondiale vive in aree urbane densamente popolate e questa percentuale, secondo i dati riportati nel World Urbanization Prospects 2018 dell’ONU, è destinata a crescere, raggiungendo il 68% nel 2050. Una densità demografica elevata, così come un contatto sociale intenso e promiscuo, favorisce il contagio e il diffondersi delle malattie, e questa è la banale ragione per cui la maggior parte dei governi sta attualmente imponendo misure di distanziamento sociale per contenere la diffusione del SAR-CoV-2.

2. Sistemi di trasporto. Negli ultimi decenni i sistemi di trasporto globali sono diventati sempre più efficienti e hanno reso iperconnesse le nostre comunità, fornendo ai virus fulminei canali di diffusione, come illustrato da Jean-Paul Rodrigue nel libro The Geography of Transport Systems. Qui l’autore illustra il diffondersi di un’eventuale infezione lungo i canali del trasporto globale e   l’andamento relativo dei contagi che, come si evince dal grafico, subisce un picco in corrispondenza delle fasi B e, soprattutto, C.

La possibile diffusione di una pandemia attraverso il sistema di trasporti globale. Immagine adattata per l’italiano e tratta dal sito web di Jean-Paul Rodrigue, autore del libro Geography of Transport Systems

3. Interferenze con le riserve virali. L’invasione e la distruzione di determinati habitat naturali, lo scioglimento dei ghiacciai, la costruzione di strade e centri urbani in zone remote, le monoculture e gli allevamenti intensivi, così come il bisogno di nutrirsi di una popolazione in continua crescita, hanno causato in numerosi paesi del mondo fenomeni di interferenza con le cosiddette “riserve virali”, ossia con animali selvatici vettori di patogeni spesso sconosciuti. Questi organismi, con cui l’uomo (o gli animali domestici) entrano in contatto, finiscono spesso in zoo, santuari, centri di recupero o direttamente nei mercati alimentari, come successo a Wuhan, scatenando infezioni a catena che, a causa dei fattori visti prima, possono facilmente e velocemente raggiungere scale di diffusione globale.

Per riassumere, l’attuale pandemia dipende, com’è ovvio, dall’insorgere di un agente patogeno dotato di alta plasticità genomica. Accanto a questo fattore, tuttavia, la struttura delle nostre società e i nostri comportamenti individuali e collettivi (migrazioni, scorretta alimentazione, smodato consumo di combustibili fossili e altre risorse naturali, inquinamento etc) hanno spianato la strada alla sua diffusione. Sorge quindi, a questo punto, una domanda tanto semplice quanto potente: cosa fare? 

Il nostro spazio d’azione si spiega secondo due direttive eterogenee, ma complementari. Da un lato, uno degli obiettivi primari della biomedicina è quello di prevedere e gestire l’emergere di infezioni virali capaci di attaccare l’essere umano attraverso lo studio della virosfera (vedi il Global Virome Project) e della sua interazione con gli organismi. Dall’altro, se è vero che l’attuale pandemia corrisponde a una delle molte conseguenze nascoste del modello socio-economico adottato dai paesi del primo mondo (un modello che viene poi subìto e talora replicato dagli altri), sta alla politica e a tutti noi rivederne le caratteristiche e modificare i nostri comportamenti individuali e collettivi, così da rimodulare una forma di vita futura più sostenibile da un punto di vista ambientale. 

Monitorare lo stato delle nostre società e dei nostri comportamenti ripensandoli in forme meno invasive nei confronti dell’ambiente, così da rendere il nostro futuro ecosistema meno favorevole alla diffusione dei virus è la nostra principale difesa da future possibili pandemie. Data l’incredibile vastità della virosfera, ossia del serbatoio di virus che potrebbero in ogni momento esser trasmessi da vettori non-umani a noi, è impossibile prevedere con esattezza l’emergere di un nuovo virus in grado di infettare il genere umano. È però possibile, seppur arduo, modificare l’ecosistema grazie al quale quei virus proliferano e con cui dovranno fare i conti dopo un eventuale spillover

È vero, quindi, quello che si sente ripetere in questi giorni da governanti, scienziati, attivisti e persone comuni. Se non vogliamo ritrovarci, domani, nella stessa situazione di oggi, “qualcosa dovrà cambiare”. Questo significa che accanto a un rinnovamento della ricerca scientifica e a un potenziamento delle strategie di prevenzione, è necessaria un’attenzione più sistemica e distribuita. Qualcosa dovrà cambiare nel tessuto stesso della nostra società e nel nostro modo di intenderne la prosperità: una prosperità che va di pari passo con la prosperità dell’ambiente e che, per il bene di tutti, non può più esserne sua parassita. 

Photo by J. W. Vein

Riferimenti

Andersen, K. G., Rambaut, A., Lipkin, W. I., Holmes, E. C., & Garry, R. F. (2020). The proximal origin of SARS-CoV-2. Nature Medicine, 1-3. DOI:10.1038/s41591-020-0820-9

Hahn, B. H., Shaw, G. M., De, K. M., & Sharp, P. M. (2000). AIDS as a zoonosis: scientific and public health implications. Science, 287(5453), 607-614. DOI: 10.1126/science.287.5453.607

Kreuder Johnson, C., Hitchens, P., Smiley Evans, T. et al., (2015). Spillover and pandemic properties of zoonotic viruses with high host plasticity. Scientific Reports 5, 14830. DOI: 10.1038/srep14830

Jones, K., Patel, N., Levy, M. et al. Global trends in emerging infectious diseases. Nature 451, 990–993 (2008). DOI:10.1038/nature06536

Geoghegan, J. L., & Holmes, E. C. (2017). Predicting virus emergence amid evolutionary noise. Open biology, 7(10), 170189. DOI: 10.1098/rsob.170189

Pigott, D. M., Golding, N., Mylne, A., Huang, Z., Henry, A. J., Weiss, D. J., & Bhatt, S. (2014). Mapping the zoonotic niche of Ebola virus disease in Africa. Elife, 3, e04395. DOI: 10.7554/eLife.04395

Quammen, D. (2014). Spillover. L’evoluzione delle pandemie. Milano: Adelphi.

Rodrigue, J. P. (2016). The Geography of Transport Systems. Abingdon: Routledge.

Sharp, P. M., & Hahn, B. H. (2011). Origins of HIV and the AIDS pandemic. Cold Spring Harbor perspectives in medicine, 1(1), a006841. DOI: 10.1101/cshperspect.a006841

Woolhouse, M. & Gaunt, E. (2007) Ecological Origins of Novel Human Pathogens, Critical Reviews in Microbiology, 33:4, 231-242. DOI: 10.1080/10408410701647560

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